Ritratto intimo e ironico della poetessa e scrittrice italiana Patrizia Cavalli. La sua storia è il racconto di una donna libera, bisognosa di pubblico e di amicizia, una raga...
L’ho conosciuta a Roma nel 1969. Mi ricordo di lei in Facoltà perché era bella, bella ma irraggiungibile. L’ho rivista dopo anni, confuso nel pubblico che ascoltava la sua lettura delle commedie shakespeariane, che aveva tradotto per dare un corpo naturale alle battute, traduzioni come ginnastica verbale, ora ritmica ora acustica, non paga delle traduzioni di Quasimodo o di Lombardo. Ricordava la grande poetessa americana Emily Dickinson, quando diceva al suo amore Sue Gilbert: «Con l’eccezione di Shakespeare, tu mi hai donato più conoscenza di qualunque essere vivente».
Parlo di Patrizia Cavalli, grande poeta (come preferiva, perché «poetessa è così ridicolo»), donna senza timori, amica di Elsa Morante, della quale rivelava dopo l’incontro: «io che ero sola, mi ci si è aperto il mondo». In un’intervista confessa che quando la Morante le chiede di leggere le sue poesie, decide di buttare via tutto e di ripartire da capo. La prima poesia la dedica a Kim Novak, poi la prima pubblicazione Le mie poesie non cambieranno il mondo nel 1974.
Non pensiamo alle sue poesie come sfoghi lirici, è sempre molto contenuta, sono talvolta epigrammi, come quelli di Marziale o le nugae di Catullo o alcune rime del Petrarca, quando in pochi tratti viene delineata una situazione o un pensiero che genera riflessione. Un linguaggio familiare, comune.
Patrizia Cavalli è morta, dopo lunga coraggiosa battaglia, l’anno scorso. Nella prosa si era cimentata anche con successo, il suo Con passi giapponesi fu finalista al Campiello 2020, ma era la poesia la sua vita. «Scrivere, non comunicare, è la mia intenzione», ma nello scrivere ha una enorme forza di colpirti dentro.
La prosa, costretta a rivelare più delle rime, mostra sguardi di donne sulle altre donne. Patrizia era poco attenta al mondo maschile, ma capace di affermare: «Gli unici momenti in cui si smette di pensare a chi si ama è quando si è tra le sue braccia. Un gran riposo anche fisico. Persi in quel vasto paesaggio che è il corpo amato, ci dimentichiamo delle nostre singolarità corporee» e ancora, «metà delle mie poesie sono dedicate a chi ha un amore infelice e trova sempre qualcuno che l’ascolta, di come ci si rivela e ci si offre e di come si abbandona». E cita Parise nell’introduzione ai Sillabari: «La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei e non ha discendenti… Un poco come la vita e soprattutto l’amore».
Tratto da Le mie poesie non cambieranno il mondo: «Ma per favore con leggerezza/raccontami ogni cosa/anche la tua tristezza». O da L’io singolare proprio mio: «A voce dolce tu mi metti a letto/tu vuoi che io dorma. Per avviarmi i sogni/mi elenchi le infinite meraviglie/di come tu saresti se tu fossi».