L’arte cosiddetta ‘bidimensionale’ nel Novecento ha più volte cercato di approcciarsi all’oggetto a partire dall’impronta di luce che ogni cosa lascia sulla superficie fenomenica del mondo, quello specchio che noi chiamiamo orizzonte visibile. Da Turner all’espressionismo astratto, gli artisti hanno cercato di suggerire la presenza della materia a partire da una sostanza impalpabile: luce, colore, condizione interiore. Tempo e spazio, in linea con le scoperte della fisica, hanno finito per collassare in immagini sincretiche, dense, simultanee in cui l’istanza narrativa appare come introiettata in composizioni tanto immediate nell’aspetto quanto complesse nella concezione. Una risposta all’accelerazione della fotografia, la sua premonizione, oppure il concepimento del cinema come sezione mobile di spazio-tempo.
Con le arti immersive, con l’ingresso cioè della dimensione spazio-temporale abitabile e percorribile nel linguaggio costitutivo di un’opera multimediale di carattere espressivo, le immagini sono destinate ad essere solo e soltanto figurative? Ovviamente no.
Lo dimostrano le molte opere tendenzialmente astratte che costituiscono un filone importante dell’arte immersiva. E lo dimostrano opere come Flow di Adriaan Lokman, che trasferisce in un’esperienza VR – in modo interessante, per quanto ancora da affinare – un processo pittorico che individua le forme a partire dalla loro impronta aereo-luminosa. Il vento, che seguiamo nelle sue imprevedibili piroette lungo vari scenari naturali e urbani, incontrando l’ostacolo della materia dà vita alla forma. Un espediente che qui si colora di una connotazione metalinguistica molto felice, che ci porta a riflettere proprio sulla natura dell’immagine digitale immersiva.
FLOW
CONCORSO
di Adriaan Lokman
(Paesi Bassi, Francia, 15’)