Questo titolo è un inganno! È Ruzante che fa Balasso!
In principio c’era il “ruzzare”. Ovvero il rincorrersi per giocare. Giocare/recitare sopra radici teatrali e linguistiche senza inciampare. Balasso ci è riuscito prendendo ispirazione dai testi dall’opera di Beolco e re-inventando un gergo che ne mantenesse senso e suono. Una drammaturgia fatta di scelte lessicali che sono, in pieno stile Ruzantiano, scelte politiche e polemiche. Un neo dialetto obliquo, abbondante e spassoso che rende concrete tre figure toccanti: l’amico rivale Menato, Gnua donna sottoposta eppure dominante e lo stesso Ruzante. Un uomo contemporaneamente furbo e credulo, pavido eppure capace di uccidere, un eroe comico dentro il quale scorre qualcosa di primitivo che lo rende immortale. Credo che Angelo Beolco, con il suo alter ego e le sue opere volesse dimostrare che un altro modo di fare arte/cultura era possibile e provava a fare azioni sceniche anti sistema anche quando era accolto da quel sistema.
Un mondo di villani dove la peste va e viene, dove tragico e comico sono fusi e conditi da desideri fisici inappagati e diritti non riconosciuti, viene intriso di malinconico humor.
Demistificata la città, sbeffeggiato il potere e l’idea falsata di benessere alla quale abbiamo sacrificato tutto rimane un sapore bucolico e amaro.
Non resta che permettere alla risata di diventare esperienza critica su di sé e l’altro da sé, nel e per il presente (dalle note di regia di Marta Dalla Via).