Le Gallerie dell’Accademia, una delle collezioni d’arte più importante al mondo, prosegue la sua attività di apertura ai grandi Maestri del contemporaneo con una grande mostra retrospettiva dell’artista britannico, di origine indiana, Anish Kapoor (Mumbai, 1954).
Un’ulteriore vertigine causata da un’ennesima mostra importantissima, in una Venezia che assomiglia sempre più a un museo senza soluzione di continuità, in cui l’abissale distanza culturale, stilistica, di forma si rende del tutto evidente comparandola a qualunque altra città, non solo italiana. Le Gallerie dell’Accademia, una delle collezioni d’arte più importante al mondo, prosegue la sua attività di apertura ai grandi Maestri del contemporaneo con una grande mostra retrospettiva dell’artista britannico, di origine indiana, Anish Kapoor (nato a Mumbai nel 1954). Curata dallo storico dell’arte e direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, Taco Dibbits, la grande mostra evidenzia i momenti salienti della brillantissima carriera di Kapoor con una serie di lavori fondamentali: dalle sculture degli esordi, come 1000 Names, alle opere sul vuoto, fino a sculture del tutto inedite, in forme che appaiono e scompaiono alla vista, create con il “Kapoor Black”, un materiale nanotecnologico innovativo, sostanza talmente scura da assorbire più del 99,9% della luce visibile. In queste opere, messe a confronto con i grandi Maestri veneti delle Gallerie, Kapoor ripropone il motivo della piega nella pittura rinascimentale come un segno dell’essere: attraverso la cancellazione del contorno e del bordo viene offerta la possibilità di superarlo. Un’ulteriore esplorazione dell’oscurità intesa come realtà fisica e psichica emerge attraverso un’altra serie di opere nere che pare penetrino le pareti del museo. Il motivo della pelle come velo tra interno ed esterno e quello della piega viene anche esplorato attraverso un’incredibile opera gonfiabile Howl (2020), concepita per essere collocata nel cortile palladiano dell’Accademia e Pregnant White Within Me (2022), un gigantesco rigonfiamento che dilata l’architettura dello spazio espositivo, suggerendo una ridefinizione dei confini tra corpo, edificio ed essere. «La luce e lo spazio di Venezia e le glorie della Collezione delle Gallerie dell’Accademia, sono stati a lungo fonte di ispirazione per me – ha ricordato Kapoor – Ho imparato ad amare questa città e i suoi pittori, scultori e architetti e mi sento onorato di essere stato invitato a impegnarmi in un dialogo visivo con essi. Spero di poter aggiungere qualcosa al vocabolario del colore e della forma che è stato il dono di Venezia al mondo».
L’ulteriore novità è data dallo sdoppiamento degli spazi espositivi per Kapoor, che ha scelto Palazzo Manfrin a Cannaregio come sede permanente della Anish Kapoor Foundation, in cui trovano posto le opere di grandi dimensioni che sfuggono a ogni definizione tradizionale. Un palazzo che torna ad essere un’importante nuovo luogo d’arte, come era stato destinato nel 1788 dal conte Girolamo Manfrin, un ricco mercante che aveva trasformato il primo piano dell’edificio in galleria, in cui era conservata una importante e vasta collezione di dipinti, sculture, libri e stampe, e che divenne una delle principali attrazioni turistiche di Venezia, visitata tra gli altri da Antonio Canova, Lord Byron, John Ruskin e Edouard Manet. Dopo la morte di Manfrin, le opere della collezione furono vendute: le Gallerie dell’Accademia acquisirono ventuno dipinti, tra cui importanti capolavori come La Tempesta e La Vecchia di Giorgione, San Giorgio di Andrea Mantegna e il Ritratto di giovane uomo di Hans Memling. Ora ad accogliere i visitatori una nuova opera monumentale intitolata Mount Moriah at the Gate of the Ghetto (2022), che sporge dal soffitto dell’androne, creata appositamente per gli spazi in fase di restauro di Palazzo Manfrin. Questa massa grondante di silicone e vernice guida i visitatori attraverso un dedalo di stanze caratterizzate da un trittico di pitture in silicone ugualmente ribollenti, Internal Objects in Three Parts (2013–2015), oltre che da molte opere iconiche di Kapoor, tra cui White Sand Red Millet Many Flowers (1982).
Il percorso continua con una serie di opere specchianti che capovolgono e distorcono le aspettative dello spettatore su ciò che si riflette. Paradiso, inferno, terra e mare sono tutti evocati, mescolati e capovolti in opere meccanizzate di grandi dimensioni come le acque vorticose rosse di Turning Water Into Mirror, Blood Into Sky (2003) e Destierro (2017), in cui un caterpillar interamente blu trasporta tonnellate di terra rossa.
Benvenuto, Mr. Kapoor!