Nella sua Medea il regista svizzero dà voce ai ragazzini, che discutono delle loro famiglie, delle loro passioni e fanno le prime riflessioni sulla morte che li sfiora intorno.
Hiroshi Tada, gran maestro giapponese dell’Aikido, nella sua biografia racconta i bombardamenti americani del 1945 su Tokio, visti con gli occhi di un ragazzino di quattordici anni, quando dormiva a scuola per vigilare contro eventuali incendi. Racconta, senza enfasi o particolari emozioni, ciò che vede, come si potrebbe raccontare un tramonto o stendere i panni dopo il bucato. L’orrore della guerra è nel lettore, non nelle semplici parole di un ragazzo. Questa sarà anche la lezione di Milo Rau nel suo Medea’s Children. Poco interessa la Medea di Euripide, che dopo aver ucciso il fratello, per vendicarsi del tradimento di Giasone, uccide anche i figli nati dalla loro unione. Né la strega raccontata da Seneca, né l’amante tradita di Corneille. Milo Rau trascura anche la rivalutazione tarda di Christa Wolf, di Medea donna sacrificata di un universo maschilista, di Alvaro che la vede vittima del razzismo o quella di Pasolini, che la colloca al centro dello scontro tra civiltà rurale, la Colchide, e l’avvento di un nuovo mondo cittadino, la civile Tessaglia. Qui la voce è data ai ragazzini, che discutono delle loro famiglie, delle loro passioni e fanno le prime riflessioni sulla morte che li sfiora intorno. Ricordiamo un importante lavoro precedente di Milo Rau, Five Easy Pieces, del 2016 dove anche viene data voce ai bambini. Il pretesto è il caso Marc Dutroux, il mostro di Marcinelle, che negli anni ‘90 rapì, violentò ed assassinò numerose adolescenti. Traspare la lezione di un suo maestro, il sociologo Pierre Bourdieu: a venir messa in risalto è la violenza simbolica e talvolta concreta dei ceti dominanti che impongono il loro universo di produzioni ideali non solo come legittime, ma come le uniche veritiere. Per cogliere l’importanza dell’intervento di Milo Rau sarebbe necessario in realtà scrivere un intero libro. Nasce a Berna, ma studia Parigi, Zurigo e Berlino, giornalista, drammaturgo, regista teatrale, cineasta, nel 2007 fonda la compagnia di ricerca teatrale e editoriale Istituto Internazionale di Omicidio Politico. Tra i suoi testi tradotti in italiano L’arte della resistenza e Perché il teatro. Lo abbiamo conosciuto bene nella 50. edizione di Biennale Teatro. Abbiamo visto i suoi film Orestes in Mosul. The making of, The Congo Tribunal, Familie, The New Gospel e in scena La Reprise. Histoire (s) du théâtre. Nel suo Manifesto di Ghent del 2018 scrive «Non si tratta più di dipingere il mondo, ma di cambiarlo. L’obiettivo non è rappresentare il reale, ma rendere la rappresentazione essa stessa reale». Ricerca di semplicità e impegno civile: «almeno una produzione per stagione deve essere provata o replicata in una zona di crisi o di guerra, senza infrastrutture culturali». Abbandono del mito del regista: «l’autorialità spetta esclusivamente a coloro che sono coinvolti nelle prove e nelle repliche qualunque sia la loro funzione e a nessun altro». Anche il pubblico veneziano non potrà restare passivo e nè potrà limitarsi a provare emozioni, ma verrà chiamato in causa nel dare giudizi e offrire la propria riflessione.