Il segreto dei misteri

L’imperdibile performance di Castellucci con Ana Lucia Barbosa
di Loris Casadei

Romeo Castellucci alla 51. Biennale Teatro con Domani alla Scuola Grande della Misericordia si confronta con il tema dell’ignoto, interrogandosi su “ciò che non sappiamo di non sapere”.

Mi permetto di riportare le origini del teatro di Romeo Castellucci al Convegno di Ivrea del 1967 che segnalò l’esistenza attiva di una sorta di avanguardia nella scena di quegli anni, i cui fermenti erano già presenti, tra gli altri, nei giovanissimi Carmelo Bene, Leo de Berardinis e Perla Peragallo. I concetti alla base di quel ricercare febbrile nuove modalità espressive erano quelli di teatro laboratorio e teatro collettivo. Il teatro come “struttura aperta” e messa in discussione dell’identità linguistica del linguaggio teatrale, dove gesto, parola, suono, spazio devono risultare tutti fattori paritari nell’economia complessiva di uno spettacolo.
Per Castellucci basti pensare alla collaborazione con Scott Gibbons e la sua scrittura musicale: il suono diviene entità fisica sul palcoscenico e meglio ancora se non vi è palcoscenico; nei luoghi aperti di rappresentazione le “macchine dei rumori” sono talvolta poste tra il pubblico o all’interno degli edifici, dove anche l’architettura diviene quindi elemento centrale nella scrittura.

In Bros, in tour teatrale in questi giorni, l’alto rumore e i violenti colpi di pistola divengono anch’essi corpo tra i corpi in scena. «Il pubblico deve essere coinvolto emotivamente – dice Castellucci –, ogni opera d’arte è un pungiglione, ogni opera deve commuovere, muovere… deve essere uno strappo esistenziale». Sul tema del teatro collettivo basti qui ricordare l’apertura di un suo spettacolo alla Triennale di Milano: il regista si presenta sul palco all’apertura del sipario, pronuncia poche, lineari parole, «Io mi chiamo Romeo Castellucci», e subito entrano tre cani che lo azzannano violentemente. Della serie la fine di ogni regista nel suo ruolo di dittatore a teatro.

Adoro Romeo Castellucci per tre motivi fondamentali. Primo, la sua umiltà: «sono capitato nel teatro senza volerlo… buona parte del mio lavoro è una mia miopia assoluta… sono attirato da tutto ciò che non conosco». Secondo, quando era direttore della Biennale Teatro nel 2005 fece un gesto rivoluzionario: per scegliere gli spettacoli aprì un vero e proprio bando, rendendo aperto e trasparente tutto il processo di selezione, ovvero rompendo l’umano ma non corretto meccanismo “dell’oggi io ti faccio una cortesia, domani mi aspetto un ritorno”. Ma in tutto questo incessante processo di ridefinizione dei codici anche sistemici del fare e produrre teatro ciò che più conta è la sua predilezione per le compagnie innovative, anche se, o per meglio dire, ancor più se senza potere contrattuale. Terzo, l’attenzione verso il pubblico, come se il rapporto tra visione e azione si invertisse. Scrive infatti: «gli attori devono essere lo specchio scuro dello spettatore», e sue opere come Bros, Il Terzo Reich, o ancora più il ciclo di spettacoli Tragedia Endogonidia, ne sono un chiaro esempio. All’estero la sua Socìetas Raffaello Sanzio è forse la compagnia italiana più conosciuta. «Le Monde» ne parla come una delle più importanti compagnie teatrali nel mondo e così la valuta anche il critico teatrale Franco Perrella nel suo Storia europea del teatro italiano (Carrocci Editore).

A Venezia vedremo Domani, reduce da un grande successo alla Triennale di Milano. La scena è dominata da una figura femminile di altezza fuori dal normale, a piedi nudi, capelli neri fradici d’acqua, sottoveste di lycra rosa pastello. Le pupille sembrano bianche. La donna procede incerta, sostenendo un lungo palo terminante con una scarpa di piccole dimensioni. Di sottofondo rumori tipici della foresta. Così inizia l’opera. Novella Tiresia? Rabdomante in un arido deserto umano? Portatrice di un ‘emblema’ che per natura non spiega e non vuole essere spiegato, ma solo accettato? La grande madre dell’universo? O colei che ci conduce tremando verso un destino ignoto? O, ancora, una reintroduzione del simbolo nella figura della performer, la brasiliana Ana Lucia Barbosa, donna feticcio, oltre due metri di altezza, famosa per saper dare piacere e dolore («I have slaves all over the world»)? Il titolo Domani ci può forse guidare…
Il compositore Scott Gibbons farà il suo meglio per tradurre l’incedere nervoso ed enigmatico della performer in domande dolorosamente e acusticamente inquietanti per lo spettatore.

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