Your Ghosts Are Mine a Palazzo Franchetti è un racconto totalizzante, immersivo e innovativo dove cinema e installazioni video si fondono per esplorare la condizione umana contemporanea.
Si spengono le luci a Palazzo Franchetti, trionfo del neogotico veneziano che in occasione della 60. Biennale Arte accoglie nelle tenebre dei suoi saloni i fantasmi di Your Ghosts Are Mine, un racconto totalizzante, immersivo e innovativo dove cinema e installazioni video si fondono per esplorare la condizione umana contemporanea. Attraverso gli estratti di quaranta opere video promosse dal Doha Film Institute e da prestigiose istituzioni quali il Qatar Museums e il Museo Arabo d’Arte Moderna, l’esposizione si aggiunge al coro degli “Stranieri ovunque” offrendo al pubblico veneziano e globale un inedito sguardo nel cangiante universo della cultura araba, raramente rappresentato in Occidente eppure denso di suggestioni capaci di trascendere confini geografici e nazionali. Saranno dunque questi spettri a guidarci tra le dieci sezioni della mostra, in cui storie di vita ordinaria si mescolano all’ambiguità del sogno in una perpetua danza tra luci e ombre.
Il percorso ha inizio nel deserto, luogo metafisico e fortemente connotato nella letteratura araba in quanto simbolo ambivalente di mutamento e perennità. Qui l’uomo è chiamato a perdersi nel miraggio per raggiungere una dimensione altra, ma anche a ricordare le proprie radici, come mostrano le opere 143 Sahara Street e Land of Dreams, in cui le dune si fanno custodi ancestrali della civiltà. Oltre le mute distese di sabbia sorgono le rovine, testimoni di un passato sconvolto e di una devastazione incombente, mentre in lontananza divampano i bagliori dei fuochi, simboli di resistenza e rinascita, la cui fiamma diviene metafora di un’inevitabile trasformazione. Tuttavia, quella della metamorfosi è una via impervia, che richiede il superamento dei propri confini, come raccontano Ghost Hunting e Ceuta’s Gate, in grado di restituire la paura e l’isolamento di chi è costretto a fuggire dalla propria terra. All’esodo segue l’esilio, rappresentato nell’omonima sezione in cui, creando un interspazio tra il paese d’origine e quello di residenza, si rivela la triste condizione dell’apolide, sospeso tra le lunghe ombre del passato e le abbaglianti luci del presente. Anche chi resta deve pagare un caro prezzo: soggetto della sesta sezione sono storie di donne all’apparenza ordinarie, provenienti da Turchia, Libia, Marocco, Iran, Algeria, Cambogia ed Egitto, che, malgrado il torpore della vita quotidiana, trovano la forza per conquistare l’indipendenza. Ma quale sorte attende questi individui, queste comunità che si trovano ad abbandonare le proprie consuetudini nella speranza di una nuova esistenza? A rispondere è la regista Sophia Al Maria, il cui lavoro, incentrato sul progressivo isolamento provocato dal capitalismo, svela il vero volto della società occidentale, soffocata dal consumo e incapace di garantire un futuro migliore.
Cadute le illusioni, non resta allora che voltarsi indietro: attingendo a un archivio visivo di memorie perdute, la sezione “Ghost” riesuma immagini cinematografiche vernacolari e frammentarie, fantasmi di un passato ormai lontano e presagi di un avvenire sempre più nebuloso, condensato nelle utopie fantastiche della sezione “Cosmo”. Un ultimo miraggio conclude questo lungo cammino trasportandoci nei ricordi dell’artista Hassan Khan, che rievoca le strade del Cairo attraverso l’immagine notturna di due uomini abbandonati al ritmo incalzante dello shaai. Ipnotizzati dalla danza, non possiamo che immedesimarci in questi e altri fantasmi, eternamente imprigionati dentro la camera eppure destinati a vivere per sempre, come ombre, nella memoria di chi li osserva.