Sognare l’ombra

Lo sguardo duale di Wim Wenders con Perfect Days
di Riccardo Triolo

La carriera del grande regista tedesco ci regala un nuovo capitolo, da non perdere al cinema.

Le luci, le ombre. Gli spazi intrisi di temporalità soggettiva. Lo scorrere della vita. Il rock. C’è tutto Wenders in Perfect Days, una delle sorprese di questo gennaio di buon cinema da tornare a vedere nelle sale, dopo la sbornia di film che sembrano più elementi d’arredo emanati dalle nostre piattaforme nei nostri salotti, con i colori giusti che si accordano agli interni domestici e li completano con la loro pigra staticità traslucida. Wenders replica con un film che sembra costruito sul sentire odierno, digerita la clausura da lockdown, maturato un nuovo intimismo analogico, alla ricerca di un tempo soggettivo pregno e significativo. Un film, Perfect Days, che nel raccontare la scelta quasi monastica del suo protagonista, un crepuscolare Kōji Yakusho che sembra voler assaporare la vita per sottrazione, per espunzione di un passato scomodo o per espiazione di chissà quali colpe, in realtà finisce per ricostruire lo sguardo dello spettatore, saturo della materia luminosa spessa e greve che non manca di abbagliarlo tutti i giorni. Il lucore dell’Occidente contrapposto alla ricerca dell’ombra originaria e confortevole in cui è immersa la cultura orientale, e giapponese in particolar modo, è il tema che sottotraccia scorre tra i fotogrammi di un film che doveva essere una serie di brevi documentari sulle toilette pubbliche del quartiere di Shibuya a Tokyo e che invece è diventata un poemetto antieroico di sapore elegiaco, con le sue stanze e le sue rime baciate. Ma c’è di più dietro le immagini spoglie costruite con perizia da Wenders.

C’è lo sguardo di un regista irrimediabilmente occidentale a confronto con concetti impenetrabili, intraducibili e profondissimi che permeano la sensibilità orientale. Concetti molti simili a quelli espressi con orgogliosa eleganza da Junichiro Tanizaki nel suo splendido Libro d’ombra (Bompiani), di cui Perfect Days pare il controcanto visivo. La densità significante dell’ombra, valorizzata in Oriente, contro la lucentezza respingente delle superfici riflettenti adorate in Occidente. Il baluginio indecifrabile dei sogni in bianco e nero del protagonista ci racconta, in fondo, l’indecidibile punto focale di un’immagine costruita su un’insanabile dicotomia. La debolezza del film, quel coagulo di concetti triti che puntellano una narrazione fotografica felicemente ambigua, è forse il segno di una crisi più profonda che interessa l’orizzonte morale dell’Occidente. Ciò che il protagonista ha espulso dalla sua vita, infatti, non è tanto il suo passato, quanto l’appendice occidentale della sua esistenza. Una zavorra che ha finito per snaturare e appesantire la levità dell’esistere orientale, che questo straordinario personaggio sembra voler innestare nuovamente perché germogli nello spazio interstiziale in cui egli davvero sente di vivere: gli attimi di contemplazione, l’iteratività sacrale dei gesti, il mutismo, gli affetti momentanei. Ed è qui, in questa profonda e irrisolvibile crisi dell’orizzonte scopico e morale che contrappone due culture che la Storia ha costretto troppo in fretta a conglomerarsi, che ritroviamo anche il miglior ultimo Wenders.