The Title

Intervista a Claire Fontaine, il collettivo di Foreigners Everywhere
di F.D.S., Mariachiara Marzari
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L’attuale situazione di vuoto politico, manageriale, sociale è quella in cui si aggira Claire Fontaine con la sua analisi lucida e tragica. Da Foreigners Everywhere, una serie di lavori al neon realizzati dal collettivo e riproposti in diverse declinazioni, il curatore Adriano Pedrosa ha tratto il titolo per la sua Biennale.

Claire Fontaine ‘presta’ il titolo alla Biennale Arte 2024, Foreigners Everywhere (Stranieri Ovunque), tratto da una serie di lavori al neon realizzati e riproposti in diverse declinazioni. L’attuale situazione di vuoto politico, manageriale, sociale è quella in cui si aggira questo collettivo, con la sua analisi lucida e tragica: di ogni emergenza attuale, di ogni problema (da quello climatico a quello geopolitico, da quello del lavoro a quello della rappresentanza politica) sappiamo tutto delle sue premesse, ma non sappiamo come risolverlo.

Due parole, Stranieri Ovunque, che raccolgono un mondo e che dal 2004 ad oggi Claire Fontaine ha ammantato di sempre nuovi e profondi significati in base ai contesti in cui sono state ‘pronunciate’. Da dove è partita e dove è arrivata l’opera? E quale ‘confine’ fisico e metafisico definisce oggi come manifesto Biennale?
Stranieri Ovunque è l’enigmatica firma di un volantino indirizzato ai migranti trovato da noi a Torino all’inizio degli anni 2000. Abbiamo raccolto il potenziale di queste due parole ambigue, le abbiamo tradotte in lingue diverse e illuminate come fossero sottotitoli dello spazio in cui erano installate. Abbiamo iniziato questa serie di lavori vent’anni fa. Stranieri Ovunque in lingua Tupi è già stato il titolo di una mostra curata da Adriano Pedrosa nel 2009, ma averlo scelto come titolo della Biennale lo trasforma radicalmente. Appropriandosi di un’appropriazione, il curatore ne ha cambiato la funzione, come accade con il ready-made, eccetto che qui è un’opera d’arte che accoglie come rifugiati tutte le altre. Questa Biennale è stata pensata dal punto di vista del Sud globale nel momento in cui il numero dei rifugiati è il più alto mai registrato sul pianeta e diversi conflitti terrificanti insanguinano il presente in modo irreparabile. Ci auguriamo che porti strumenti per affrontare emotivamente e criticamente queste tragedie.

La solitudine non è una cosa da temere, è essenziale alla creatività e all’equilibrio mentale. È anche la condizione per apprezzare la collettività

Sia nella costruzione simbolica di Claire Fontaine che nelle sue opere sembra evidente la volontà di superamento della soggettività come ricatto storico dell’autorialità, del culto dell’artista. È davvero così?
I tempi sono maturi per comprendere quanto danno abbia fatto l’individualismo capitalista e quanto deboli siano diventate le soggettività costruite su questo paradigma che non mette al centro la relazione umana nella costruzione del proprio senso del sé. L’intersoggettività fisica ed esperita è la fonte principale di senso delle nostre vite e soprattutto della creazione. È bello parlare di ricatto rispetto alla concezione odierna della soggettività, perché di fatto il programma di ogni identità è di assomigliare sempre a se stessa, corrispondere alle aspettative di chi la forgia (famiglia, lavoro, società, stato), mentre invece la soggettività è un divenire; le nostre vite sono dei processi non lineari, dei continui movimenti in direzioni imprevedibili, non delle marce a tappe forzate in un percorso produttivo.

Sembra di capire che per Claire Fontaine l’arte non ha a che fare con la paura, la disperazione, né con il bisogno dell’artista di entrare in relazione con i corpi sociali. In effetti, date la sensazione di non essere a disagio in una stanza vuota…
No, per niente. Passiamo la vita in stanze vuote, come la maggior parte degli artisti. La solitudine non è una cosa da temere, è essenziale alla creatività e all’equilibrio mentale. È anche la condizione per apprezzare la collettività.

Ph. Julie Joubert, courtesy the artist and Kamel Mennour

Dalle letture delle sue interviste come dalla visione delle sue opere Claire Fontaine dimostra di possedere un rigore intellettuale degno di un logico matematico e una visione degli orizzonti temporali degna di un abile analista finanziario. Tuttavia, le sue analisi sulla società e sull’arte non sfiorano mai né il cinismo né l’opportunismo: non solo sono condivisibili, ma sembrano anche dotate di una partecipata consapevolezza, di una dolorosa saggezza sui rischi del futuro prossimo venturo. Come si aggiorna il pensiero di Claire Fontaine e come di conseguenza si esprime il suo lavoro?
È una domanda trabocchetto? Ci sembra troppo lusinghiera… Gli artisti hanno l’immensa fortuna di non essere incatenati a nessuna classe sociale. Incontrano persone ricche, povere, ignoranti, colte, interessanti, noiose; se lo desiderano possono mantenere la loro mente completamente aperta e cercare di comprendere quello che accade con meno pregiudizi possibile, possono insomma coltivare la libertà. Naturalmente facendolo si trovano in una posizione spossante che crea un’infinità di complicazioni che la maggior parte delle persone preferisce evitare. Dato che noi diciamo che il nostro lavoro è un’investigazione sull’esperienza di essere vivi nel ventunesimo secolo, con Claire Fontaine non abbiamo scelta e manteniamo sia il cuore che la mente aperti, ma potremmo provarci tutt*.

Abbiamo iniziato con l’identità di genere perché la società patriarcale è strutturata su dei ruoli fissi: l’identità maschile oscilla tra l’onore e la vergogna e la donna che vi orbita intorno è co-responsabile del lato verso cui l’ago pende nell’esistenza dell’uomo che accompagna. Questo è uno dei primi meccanismi da far esplodere…

Un concetto importante nel suo sistema estetico e produttivo è quello dello human strike, dello sciopero umano. Da cosa l’uomo dovrebbe scioperare?
Tanto per cominciare dovremmo scioperare contro le identità di genere: “l’uomo”, per esempio, è un’idea astratta e opprimente per l’umanità e va rivisitata alla luce della tossicità del patriarcato. La nostra consapevolezza attuale del rapporto tra produzione e riproduzione mostra che la riappropriazione dei mezzi di produzione da parte della classe operaia non sarebbe ormai più risolutiva di nulla; i nostri metodi produttivi non sono sostenibili e ci stanno sprofondando sempre più nel disastro ecologico. Sono i nostri rapporti con il mondo, con le risorse della nostra energia, col lavoro, sono i nostri desideri che andranno radicalmente trasformati. Il campo di battaglia di queste lotte non è più solo la differenza di classe, ma la soggettività e il modo in cui è costruita; lo sciopero non può limitarsi al campo professionale, deve investire il relazionale, in cui la nostra complicità con gli oppressori è più difficile da scardinare. Il lavoro relazionale è diventato una vera e propria miniera sia nel campo professionale che in quello dei social; contribuiamo costantemente alla riproduzione di una società invivibile in tanti modi diversi (con il lavoro di cura gratuito o mal pagato, con l’accettazione di condizioni di sopravvivenza psicologicamente e materialmente disumane, con la paura di denunciare l’orrore che ci circonda). Dissociarsi da ciò che nelle nostre relazioni anche informali rende possibili l’oppressione e la solitudine, l’angoscia e la depressione, ci permette di entrare in sciopero umano e trovare compagni e compagne di lotta. Abbiamo iniziato con l’identità di genere perché la società patriarcale è strutturata su dei ruoli fissi: l’identità maschile oscilla tra l’onore e la vergogna e la donna che vi orbita intorno è co-responsabile del lato verso cui l’ago pende nell’esistenza dell’uomo che accompagna. Questo è uno dei primi meccanismi da far esplodere: se salta, salterà tutto il resto – come dice Paul Preciado.

Adriano Pedrosa offre una nuova visione di Sud come concetto e prospettiva. Perché Claire Fontaine ha scelto il Sud?
Potremmo darvi le risposte ovvie che sono naturalmente vere (sul cibo, la gente, il tempo). In realtà abbiamo scelto Palermo per il suo rapporto con la resilienza, perché convive con le sue ferite e trova modi di coesistere con l’irreparabile, l’imperfezione, l’incuria. Tutti i problemi della nostra civiltà si vedono molto più chiaramente dal Sud. Il problema del capitalismo è che si accompagna a una forma di riscrittura del reale, una propaganda pubblicitaria che si incarna (Debord la chiamava la società dello spettacolo), che rende invisibili tutte le possibilità e le occasioni che potrebbero salvarci dal disastro presente. Dal Sud invece si vedono benissimo.

Foto in evidenza: © Fausto Brigantino, Palermo 2024

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