È il cinema, bellezza!

Con Alberto Barbera, dentro la Mostra del Cinema di Venezia
di Massimo Bran, Mariachiara Marzari
trasparente960

81esima edizione della Mostra del Cinema, 16esima direzione, 12esima consecutiva, 74 anni portati alla grande. Insomma, con Alberto Barbera, ormai autentico doge del cinema veneziano direzione Lido, i numeri sono un qualcosa di sempre meno banale.

Diciamo che ormai parlare di era Barbera suona tutt’altro che retorico o enfatico. È semplicemente nelle cose. L’abbiamo come ogni anno incontrato alla vigila del festival per farci raccontare un’edizione che davvero accoglie il cinema in tutti i suoi linguaggi espressivi, attraversando generazioni, generi, geografie. Inutile dire che l’assordante assenza di un ospite non proprio irrilevante lo scorso anno, Hollywood, ritornando ora in grande stile sul red carpet lidense ne fa motivo di massima, emozionante attesa. Buon viaggio nel cuore della Mostra!

Ogni anno, ogni edizione ha una sua storia per quel che riguarda il percorso di selezione dei film. Certo seguirete uno schema rodato, eppure di anno in anno le cose comunque mutano, l’industria ha sempre nuove esigenze in rapporto a un mercato in perenne evoluzione. In più siete reduci da anni a dir poco particolari, tra pandemie e scioperi hollywoodiani. Quale il tratto, il segno distintivo del vostro lavoro di selezione per questa Mostra 2024?
Una grande e piacevole fatica, caratterizzata da tutti i cambiamenti che si sono innescati dopo una pandemia che ha stravolto completamente il nostro modo di lavorare dal punto di vista cronologico, ma non solo. Prima del 2020 il nostro lavoro si intensificava soprattutto a partire dal mese di marzo, quando arrivavano i primi film che venivano visionati in attesa dell’ondata vera e propria che sarebbe arrivata a partire dalla seconda metà di maggio. Fino a maggio il lavoro di valutazione dei film si concentrava nell’arco di due, tre giorni alla settimana, con un numero limitato di opere da visionare, una parte delle quali si trovava al bivio tra Venezia e Cannes, quindi con una delle due direzioni da imboccare. Ora le cose sono totalmente cambiate: i primi lavori per questa edizione hanno iniziato ad arrivarci tra novembre e dicembre e da gennaio in poi io e i miei collaboratori non abbiamo fatto altro che vedere film tutti i giorni, spesso e volentieri weekend compresi. Accade questo perché sono saltati completamente tutti i parametri e i calendari dopo lo smottamento sociale, economico e politico prodotto dalla pandemia. Prima chi aveva un film pronto in autunno lo presentava in visione a Berlino o al Sundance, chi invece arrivava alla fine della lavorazione in primavera cercava di farlo selezionare da Cannes, chi infine terminava il film in estate puntava su Venezia. Oggi, quando un regista ha un film pronto, lo manda ovunque subito, pretendendo anche un riscontro molto veloce; non c’è la pazienza di aspettare che i selezionatori ci ragionino sopra. Ecco che allora un film viene visionato nello stesso momento dai selezionatori del Sundance così come da quelli di Berlino, Telluride, Cannes, Venezia, San Sebastian, Toronto, Londra, New York, Locarno…, nella speranza da parte di autori e produttori di essere invitati da uno almeno tra questa decina di festival internazionali. Difficile far capire ai non addetti ai lavori quanto dinamiche del genere siano ingovernabili e complichino immensamente il lavoro di selezione, costringendoci spesso ad operare al buio guidati dall’ansia di occupare a febbraio slot che poi in estate ci pentiamo di non aver lasciato liberi, dando spazio a prodotti migliori e più adatti alla nostra selezione ufficiale ricevuti magari solo all’ultimo momento. Ammetto di aver trascorso più di qualche notte insonne per i dubbi suscitati da una pellicola che davvero non sapevo bene dove collocare, o addirittura se includere, nel programma di questa Mostra. L’anno scorso già prima del Festival di Cannes avevamo selezionato almeno tre quinti dei film, trovandoci poi in serie difficoltà nell’inserire in selezione pellicole di notevole qualità che abbiamo ricevuto da maggio in poi. Quest’anno ho deciso perciò di andare avanti più lentamente, per fare in modo che il programma si costruisse a velocità costante, con scelte ponderate al massimo e portate avanti dalla fantastica squadra che ho la fortuna di coordinare. Da maggio in poi ho avuto la conferma della bontà della mia scelta, convincendomi in maniera progressiva e crescente della qualità dei film invitati, delle decisioni prese insomma. Pur avendo manifestato spesso a diversi colleghi la mia volontà di tenere in Concorso al massimo 18 film, alla fine non ce l’ho proprio fatta a inserirne meno di 21: troppo alta la qualità delle proposte ricevute. Credo e spero che la cosa non dispiacerà…

Tra le mille suggestioni che ogni anno Venezia immancabilmente presenta, inutile dire che dopo la parentesi “bianca” del 2023 c’è una vitale e fremente attesa per il ritorno in grande stile di Hollywood al Lido. Ha avvertito, dopo lo stop del 2023, un qualcosa in più, una tensione crescente nel voler esserci qui, in questo 2024, da parte della grande industria dei sogni d’oltreoceano?
Se c’è una sensazione netta che abbiamo percepito fin dai primi contatti con registi, cast e produttori americani è stata proprio quella di parlare con persone che non vedevano l’ora di tornare a Venezia, che erano felicissime di risentirci e di poterci rivedere di persona. Non abbiamo dovuto insistere con nessuno; anzi, tutti i grandi nomi hanno da subito manifestato la volontà di esserci, anche facendo acrobazie non da poco tra impegni sul set e scadenze professionali varie. Tutti hanno fatto in modo, anche solo per 24 o 36 ore, di venire al Lido. In passato qualche defezione c’era sempre stata, come è normale che sia; settembre è sempre un periodo in cui le produzioni cercano di lavorare a pieno ritmo. Ma quest’anno sembra che si voglia in qualche modo recuperare l’arretrato accumulato nel 2023 con lo sciopero degli sceneggiatori, supportati poi da autori e attori. Ogni anno prima della conferenza stampa ci divertiamo a fare la lista delle star che verranno e quest’anno l’elenco è davvero lungo come non mai. Tutti, ma davvero tutti vogliono esserci senza se e senza ma!

A ben vedere, credo che la ricerca che abbiamo portato avanti quest’anno per individuare i giusti profili dei Leoni alla carriera sia esattamente la stessa che da sempre caratterizza l’identità profonda della Mostra del Cinema.

Hollywood che fa la parte da Leone anche nei premi aurei alla carriera, con Sigourney Weaver e Peter Weir. Perché queste scelte e perché oggi?
Peter Weir era da diversi anni nei nostri radar. Ha realizzato alcuni capolavori assoluti della cinematografia recente, basti pensare a L’attimo fuggente o a The Truman Show, autore in grado di conciliare una visione estremamente personale e originale con la necessità di parlare ad un pubblico amplissimo. Non è forse questa la sfida cruciale che dovrebbe affrontare il cinema di ogni tempo? Se al giorno d’oggi decidi di fare questo mestiere, nella ricerca delle risorse devi necessariamente porti il problema del pubblico a cui vorresti rivolgerti e del linguaggio che intendi conseguentemente adottare, per fare in modo che il prodotto non sia autoreferenziale riuscendo così a trovare un suo ampio seguito. Credo che Peter Weir sia riuscito come pochi altri a conciliare questi due opposti, a dare equilibrio e stabilità a queste tensioni che una ricerca del genere può generare e da cui i registi rimangono spesso travolti se non abbastanza lucidi. Volevo premiare la sua straordinaria capacità di far convivere l’anima artistica e quella industriale del cinema di oggi e del recente passato: i suoi film sono prodotti di consumo e intrattenimento, risultato di riflessioni personali, originali, fortemente individuali. Questa sua unicità è confermata, purtroppo, dal fatto che da diversi anni non riesca più a fare film, estraneo com’è al meccanismo crudele di una Hollywood che troppo spesso macina i talenti anziché esaltarli. Credo che Sigourney Weaver rappresenti il versante femminile di questa stessa disposizione, con una carriera che l’ha portata ad alternare grandi film per il pubblico a pellicole d’autore dalla circolazione più ridotta ma assolutamente significative. Opere originali e personali che i registi le hanno affidato sapendo con lei di poter con equilibrio cucire l’anima commerciale di un film con quella artistica. I grandi film per il pubblico le hanno garantito una visibilità e una credibilità che è stata ben felice poi di mettere a disposizione di registi esordienti che avevano qualcosa di proprio ed interessante da dire. Mi è sembrata senza dubbio alcuno una figura meritevole da premiare con il nostro prestigioso Leone, protagonista di una carriera che nel meccanismo del cinema industriale aveva a cuore la salvaguardia dell’autorialità più originale e soggettiva. A ben vedere, credo che la ricerca che abbiamo portato avanti quest’anno per individuare i giusti profili dei Leoni alla carriera sia esattamente la stessa che da sempre caratterizza l’identità profonda della Mostra del Cinema.

Più volte lei ha ribadito che alla fine il palinsesto di un grande festival si fa con gli ingredienti che si hanno a disposizione “qui e ora”. Eppure è sempre intrigante indagare sulle geografie mutevoli da cui provengono i vari film in programma.
A parte la massiccia presenza hollywoodiana, italiana e francese, quali filmografie quest’anno hanno prodotto quantitativamente e qualitativamente un deciso passo in più? Negli anni passati ci è stato spesso mosso il rimprovero di presentare un Festival a tinte smaccatamente europee e nordamericane. Scarsa presenza del sudest asiatico, del continente africano o di quello latinoamericano. Si tratta di dati oggettivi, motivati tuttavia non dalla nostra scarsa attenzione verso queste cinematografie, quanto dalla mancanza di ‘materia prima’, ossia dagli sparuti titoli provenienti in fase di selezione da quelle aree del mondo. Dal sudest asiatico arriva davvero pochissimo oggi; ritengo per il fatto che sono stati colpiti durissimo dalla pandemia, rimanendo isolati assai di più rispetto a quanto lo siamo stati noi in occidente, e per il peso enorme che ha ovviamente la censura, in particolare per quel che riguarda il cinema cinese. Una censura a più livelli, indiretta e diretta: indiretta perché il governo cinese finanzia solo i film che promuovono un contenuto coerente con le politiche e le ‘indicazioni’ del Ministero della Cultura; diretta perché un regista non può dire nulla che prima non sia stato vagliato e approvato dagli apparati burocratici di riferimento. La Cina produce tantissimo cinema, rivolto però prevalentemente ad un mercato interno: film di propaganda o commerciali del tutto privi di quella qualità che contraddistingue il libero sguardo di un autore che può interessare ai Festival occidentali. Nel contesto sudcoreano non si produce nulla che non sia cinema commerciale, di qualità anche piuttosto modesta a dire il vero. Si punta moltissimo sulle serie, complice anche il grandissimo successo di Squid Game nel 2021, ideata e diretta da Hwang Dong-hyuk e divenuta fenomeno planetario grazie a Netflix, mentre i film destinati al cinema sono di qualità piuttosto scadente. Ci sono autori interessanti come Bong Joon-ho o Lee Chang-dong, che tuttavia fanno film ogni 3-4 anni e che rappresentano comunque dei casi piuttosto isolati. Stesso discorso vale per il Giappone, con Hirokazu Koreeda e Kiyoshi Kurosawa a spiccare in un panorama anche questo più votato verso prodotti commerciali o a produzioni destinati alle piattaforme. Si è da poco creata in Giappone una società gestita da diversi cineasti che ha come obbiettivo proprio quello di realizzare prodotti d’autore rivolti al circuito internazionale; speriamo davvero di vedere presto i frutti di questo lavoro. Il continente africano è di sicuro in fermento, ma ancora all’inizio di un processo di costruzione del proprio cinema proprio come industria direi. Molti dei prodotti che vengono realizzati in Africa godono spesso di finanziamenti francesi, per le note radici ex coloniali, il che li porta ad avere un canale di ingresso privilegiato a Cannes. Dobbiamo attendere che questo sistema, questa industria cinematografica si strutturi nel tempo, ma sono convinto che questo giovane continente diventerà uno dei riferimenti più solidi del prossimo futuro. Il Sud America è invece alle prese con problemi di ben altra mole e natura. Il Brasile è da poco uscito da una sostanziale dittatura quale è stata quella di Bolsonaro, capace in breve tempo di fare terra bruciata attorno a moltissimi intellettuali e all’arte tutta in generale, mentre l’Argentina si ritrova oggi con un governo populista alquanto preoccupante sotto tutti i punti di vista, governo che sta uccidendo il cinema del Paese tagliando completamente tutti i contributi che tradizionalmente lo sostenevano. Cinema sudamericano quest’anno comunque ne abbiamo, vedi Ainda estou aqui di Walter Salles in Concorso, che considero il suo film più bello, o El Jockey dell’argentino Luis Ortega, sempre in Concorso. C’è da augurarsi che in questi contesti culturali di straordinaria tradizione il futuro possa essere meno tormentato, ovviamente non solo in ambito cinematografico. Alla luce di questa serie di criticità geopolitiche e culturali la polarizzazione europea e americana giocoforza diviene, in qualche modo, fatale.

Songs of slow burning earth FUORI CONCORSO

L’attenzione che il cinema dei nostri giorni dedica alla contemporaneità è fortissima, con un livello di approfondimento e consapevolezza che fa parte della storia del cinema di ogni tempo, ma che oggi si fa particolarmente significativo e tangibile.

Un festival generalista di livello mondiale come la Mostra del Cinema è evidente che non può concentrarsi eminentemente sui generi, scegliendo di privilegiarne a tavolino alcuni anziché altri. Una sana dose di ecumenismo è nelle cose, ci sta in una selezione di così grande respiro. Eppure, volente o nolente, ogni anno c’è qualche direzione che emerge più di altre nel vasto delta della Mostra. Quest’anno ci pare che i documentari siano presenti in maniera ancora più forte ed importante, con un’attenzione intrigante sul mestiere del giornalismo, in particolare di chi lo svolge sul campo, da inviato. Una cosa quasi d’altri tempi ci si immaginava ormai. Eppure…
È innegabile che di documentari ne arrivino davvero tantissimi. Si tratta di un prodotto che trova larga platea nelle diverse piattaforme che oggi sono fruibili ormai da ogni device. Ovviamente la grande quantità di produzioni spesso è nemica della qualità, perché fa lievitare inevitabilmente il numero di prodotti di scarso interesse o di basso livello. I documentari più interessanti credo siano quelli capaci di toccare le corde più vive della quotidianità: impossibile purtroppo allora non rivolgersi ai contesti di guerra di cui il mondo è disseminato, non volgere lo sguardo al tema sempre più pressante e drammatico dell’immigrazione, o ancora ai risvolti più inquietanti di una crisi climatica sempre più sul punto di deflagrare. Tra quelli quest’anno da noi selezionati, quindi, molto forti e coinvolgenti sono i documentari sul conflitto russo-ucraino firmati dall’ucraina Olha Zhurba con Songs of slow burning earth e dalla russa Anastasia Trofimova con Russians At War, entrambi Fuori Concorso. Queste due giovani filmmaker hanno ripreso in diretta e senza filtri quella che è la quotidianità di questo conflitto diventato cronaca quotidiana. Anastasia Trofimova è riuscita a farsi accettare da un’unità medica russa che opera sul fronte portando avanti il lavoro registico in clandestinità e venendo protetta da questi improvvisi compagni di vita, aumentando se possibile il coefficiente di difficoltà di un lavoro il cui risultato è davvero sconvolgente. Ha vissuto al loro fianco per un anno e offre al pubblico ora immagini inedite, senza filtro alcuno, di un fronte che non vediamo nei telegiornali. Olha Zhurba non ha filmato il fronte, ma l’interno di un Paese che vive sotto la costante minaccia dei bombardamenti russi, invaso da una potenza straniera che ne ha devastato e stravolto la fisionomia topografica, sociale e civile. Lo fa senza alcun commento, senza voce fuori campo, facendo toccare con mano allo spettatore la realtà nuda e cruda, restituendo tutta la sofferenza e il dolore di una quotidianità logorante, di fatto insostenibile. Passando poi al secondo fronte di guerra su cui è concentrata l’attenzione del mondo intero, ossia quello israelo-palestinese, Amos Gitai presenta quest’anno Fuori Concorso Why War, lavoro incentrato sul dialogo epistolare svoltosi negli anni ‘30 tra Einstein e Freud attraverso il quale vicendevolmente i due geni novecenteschi si interrogano su che cosa abbia spinto l’uomo nel corso della propria storia a scegliere sempre e comunque la guerra come soluzione ai contrasti e ai conflitti che attanagliano il pianeta, generandone immancabilmente altri in un loop inesorabile ed inesauribile. Fantastica è la possibilità di entrare nel cuore vivo di quesiti che tutti ci poniamo qui espressi a un livello di interlocuzione ai massimi livelli immaginabili. Domande che, ahimè, rimangono troppo spesso senza risposta alcuna. In Orizzonti troviamo poi Al klavim veanashim di Dani Rosenberg, autore già presente a Locarno quest’anno con The Vanishing Soldier. Protagonista è una giovane ragazza alla disperata ricerca della madre e del cane, spariti dopo gli attacchi di Hamas in diversi kibbutz il 7 ottobre del 2023. Proprio il passaggio in queste comunità agricole, rimaste deserte dopo gli attacchi, serve da spunto di riflessione su come le azioni di Hamas e dell’esercito israeliano siano in realtà due facce di una stessa medaglia fatta di sofferenze e violenze insopportabili. Le immagini ci fanno capire quanto il comune denominatore della violenza ponga tutti sullo stesso piano; il fatto poi che una riflessione del genere sia portata avanti da un giovane regista israeliano, quindi appartenente a uno Stato, a un popolo che ha per primo subito l’aggressione, rappresenta un motivo di straordinario interesse e insieme un atto di notevole coraggio che merita già di per sé di godere dell’attenzione di una platea internazionale ampia e variegata come quella della Mostra del Cinema di Venezia. Sempre in chiave documentaristica è poi sicuramente degno di nota Separated di Errol Morris, che racconta il terrificante proposito dell’amministrazione Trump di separare genitori e figli delle famiglie di immigrati lungo il confine tra Messico e Stati Uniti. Un proposito per fortuna non pienamente compiutosi grazie al lavoro di alcuni funzionari coscieniosi che hanno deciso di ribellarsi a questa folle disposizione, e che però in non pochi casi ha determinato comunque la separazione di migliaia di famiglie che ancora oggi non sono state in grado di ricongiungersi, come Morris ben racconta intervistando alcuni di questi funzionari degli uffici preposti al controllo dell’immigrazione. Una violenza che non fatico a definire nazista, una politica totalmente scellerata che avrebbe potuto avere conseguenze ancora più catastrofiche se non fosse stato per una reazione di coscienza di singoli individui capaci di disobbedire a risoluzioni governative di fatto criminali. L’attenzione che il cinema dei nostri giorni dedica alla contemporaneità è fortissima, con un livello di approfondimento e consapevolezza che fa parte della storia del cinema di ogni tempo, ma che oggi si fa particolarmente significativo e tangibile.

Russians at War FUORI CONCORSO

A proposito di geografie, una giuria quella del Concorso a dir poco planetaria. Come ha costruito la squadra “arbitrale” di questa Mostra? Le diverse altre Giurie (Orizzonti, Opera Prima, Classici) sembrano voler restituire anch’esse uno scarto formale tra le differenti sezioni, con personalità improntate più alla scrittura, appartenenti al mondo accademico, o comunque titolari di talenti che si fanno sempre più aderenti alle sezioni che si troveranno ad esaminare.
La giuria del Concorso ha necessariamente bisogno di personalità forti, credibili e affidabili, immediatamente riconoscibili non solo dal punto di vista mediatico, ma anche e soprattutto da quello tematico ed espressivo. In questa edizione abbiamo coinvolto soprattutto registi, coordinati da una personalità iconica come Isabelle Huppert, presenza che al Lido siamo stati felicissimi di ospitare in questi anni. Che dire di lei? Una personalità fortissima che attraverso le proprie scelte ha dimostrato di essere in possesso di una vastità di vedute davvero encomiabile, uno sguardo sempre attento che l’ha portata a lavorare con la stessa carica interpretativa sia quando diretta dalle grandi leggende del cinema internazionale, sia quando si è trovata a recitare per l’esordiente di turno. La sua filmografia affianca il grande cinema mainstream a prodotti fieramente indipendenti, a conferma non necessaria di quanto il suo lavoro di giurata sarà libero da ogni forma di preconcetto o chiusura mentale. Sono convinto si troverà davvero a proprio agio in questi panni, mai come quest’anno alle prese con un programma in cui troviamo davvero di tutto. Gli altri componenti della giuria del Concorso li conosco personalmente e posso quindi intuire quale grande contributo potranno dare al confronto in sede di giudizio, personalità che non frequentano solo il proprio cinema o quello del proprio Paese, ma che hanno uno sguardo aperto su tutti i generi e su tutte le geografie cinematografiche. Per Orizzonti e Opera Prima il discorso vale altrettanto e forse anche di più, visto che abbiamo a che fare nella maggior parte dei casi con giovani registi, nuovi talenti, autori non ancora affermati che credo debbano essere osservati con attenzione ancora maggiore per coglierne le composite peculiarità stilistiche, necessarie nella loro difformità esperienziale per giudicare a livello critico delle opere diversissime tra loro e che hanno al proprio interno un potenziale non ancora svelato, da scoprire con paziente osservazione. Gianni Canova, infine, Presidente della giuria Opera Prima, è una scelta che rivendico con grande determinazione e soddisfazione. Critico cinematografico dalla grande competenza, intelligenza e disponibilità, in grado di spiazzare con i propri giudizi in un contesto come quello della critica cinematografica in cui sempre più spesso si materializza il mio timore più grande: sapere cosa un critico scriverà di un film ancora prima di leggerne la recensione. Quest’anno è stato davvero difficile comporre le giurie per motivi di impegni concomitanti, ma mi considero davvero molto, molto soddisfatto del risultato ottenuto.

Vermiglio CONCORSO

Un Concorso ricchissimo ed altrettanto atteso, che presenta al contempo una teoria di grandissimi maestri e registi emergenti o quasi. Questo Festival sembra quasi voler costruire e restituire una dialettica vitale tra generazioni e generi.
A furia di leggere e sentirmi dire di quanto quello di quest’anno sia il Concorso migliore di sempre finirò per crederci anch’io! Cosa che, lo confesso, non mi capita mai, teso come sono per natura a pensare che tutto sia migliorabile sempre e comunque. Che dire? Spero vivamente che tutti quelli che lo sostengono possano esserne convinti anche l’8 settembre! Proprio come dicevate prima, un grande Festival si fa con gli ingredienti che si hanno a disposizione “qui e ora”, con quello che arriva e che viene selezionato. Le scelte sono naturalmente alla base di tutto: se uno per gioco volesse andare a ritroso nei mesi scorsi a cercare le pellicole che potevano essere potenzialmente presenti a Venezia e che invece ora non ci sono, capirebbe quanto è stato complicato e ponderato il nostro mastodontico lavoro di selezione. Le scelte rappresentano il fulcro del nostro mestiere, la spina dorsale della nostra progettualità, il tratto distintivo del nostro operare. Scelte che ovviamente si fanno non solo affidandosi a nomi di grido quali Almodovar, Todd Phillips, Luca Guadagnino o Walter Salles, ma guardando un film valutandone lo specifico potenziale a prescindere dall’argomento trattato, o comunque senza permettere che l’argomento sia un fattore aprioristicamente condizionante, quanto piuttosto un semplice punto di partenza. Fatta una determinata scelta, poi si decide dove collocare il film, cercando di individuare quale sezione può esaltarne gli spunti. Il numero piuttosto limitato di titoli che possiamo selezionare per il Concorso qui a Venezia impone per forza di cose che sia la qualità il criterio guida in sede di scelta, ancora prima del cast, del regista o del richiamo mediatico di un’opera. Prendiamo su tutti il film attesissimo di Todd Phillips: se avesse fatto un seguito di Joker non all’altezza del primo capitolo, sarei stato il primo a consigliargli di entrare direttamente nel circuito delle sale a confrontarsi con il pubblico senza passare da noi. Perché avrebbe dovuto rischiare? Proprio a Venezia tra l’altro, dove ha vinto il Leone d’Oro, ragione per cui potrebbe tranquillamente vivere di rendita. Beh, capirete allora benissimo da voi i motivi per cui ho voluto con noi Joker: Folie à Deux. Un film semplicemente eccezionale. Insomma, i lavori che troverete in Concorso sono semplicemente i 21 migliori film candidabili, di questo siamo più che sicuri. Un Concorso in cui non mancano comunque le sorprese, registi magari poco conosciuti o del tutto sconosciuti al grande pubblico. Scommesse che sono ingredienti irrinunciabili di ogni Festival che si rispetti, sfide in cui ci lanciamo più che volentieri e che abbiamo vinto spesso. Alice Diop non faceva parte dei nomi di primo piano quando nel 2022 ha vinto il premio migliore opera prima “Luigi De Laurentiis” con il bellissimo Saint Omer. Lo stesso dicasi per Audrey Diwan nel 2021, vincitrice del Leone d’Oro per il miglior film con L’événement. Il tutto per sottolineare l’importanza di scelte che hanno inteso valorizzare una voce nuova, un talento emergente, un autore che sta muovendo i primi passi, trasformandolo in una certezza di domani. Mi preme comunicare al pubblico quanto sia significativo rilevare la presenza di ben 12 registi al debutto su un totale di 21 titoli in Concorso. È importante vedere Siew Hua Yeo a fianco di un Guadagnino che porta in Concorso il suo film più compiuto, Dea Kulumbegashvili nella stessa sezione di Almodovar, oppure ancora un lavoro come Vermiglio di Maura Delpero a distanza ravvicinata da un Todd Philips. Il bello del cinema è tutto qui. Tra i lavori dei grandi maestri, che da noi non mancano mai, il film di Lelouch Finalement avrebbe benissimo potuto essere inserito in Concorso; lo considero un lavoro bellissimo che rappresenta davvero la summa del cinema di questo straordinario autore francese. Ma la decisione di assegnargli il Premio Cartier Glory to the Filmmaker ci ha permesso di collocarlo a giusto e alto titolo tra i Fuori Concorso, il che ci ha dato la possibilità di inserire un altro film e un altro autore tra la lista dei 21 titoli in competizione. Il Festival vive di queste dinamiche ed è giusto che sia così. Rimanendo sempre oltralpe, mi piace qui segnalare Emmanuel Mouret, amatissimo dai Cahiers du cinéma, che con Trois amies confeziona una commedia che sembra scritta a sei mani con Woody Allen ed Éric Rohmer, molto convincente nel raccontare la deriva dei sentimenti con riuscita empatia e sensibilità. Consiglio poi assolutamente di vedere Leurs enfants après eux dei fratelli Zoran e Ludovic Boukherma, tratto da un romanzo capace di vincere il Premio Goncourt e incentrato sulle vicende di un gruppo di ragazzi delle banlieue di provincia, un’opera caratterizzata da un linguaggio popolare limpido e genuino. Film magari non totalmente maturo e formato, eppure coinvolgente e personale, con qualcosa di urgente da dire; lo stesso dicasi per le due sorelle Delphine e Muriel Coulin con il loro Jouer avec le feu, interpretato da Vincent Lindon. Il ‘solco’ tra maestri e nuove generazioni è percepibile, come è giusto che sia, ma è una distanza che non può che coinvolgerci emotivamente ed esteticamente per la vitale diversità di vedute e di resa filmica di questi lavori tanto lontani nei loro presupposti creativi, quanto prossimi nella loro dialettica ravvicinata in questa casa comune che è la Mostra.

Leurs enfants après eux CONCORSO – Credits Chi-Fou-Mi Productions – Trésor Films – Warner Bros. Photo Marie-Camille Orlando

Gli altri italiani in Concorso.
Li abbiamo scelti anche perché non avrebbero potuto essere più diversi tra loro. Gianni Amelio con Campo di battaglia ci regala un cinema classico e d’autore, con una sobrietà registica ancora più intensa del solito. Maura Delpero con Vermiglio realizza un lavoro totalmente inaspettato, recuperando la lezione di Olmi ne L’albero degli zoccoli con una storia ambientata nel ‘46 nel villaggio di montagna ai confini dell’Austria che dà nome al film. Un lavoro dal realismo assoluto, con pochi attori professionisti nel cast, che segue per un anno la vita di queste persone impegnate nel duro ambiente alpino. Un film in cui sembra davvero di vivere lì, fianco a fianco a questi allevatori di capre e a questi agricoltori. Una storia semplice e fortissima, che rappresenta un salto di qualità significativo rispetto all’ultimo suo film, Maternal del 2019, presentato a Locarno. Fabio Grassadonia e Antonio Piazza con Iddu realizzano un film sulla mafia dimenticandosi bellamente di tutta la tradizione italiana di film sul tema, offrendoci un lavoro che si discosta decisamente dal cinema di denuncia. Lo fanno con il registro a cui ci hanno abituato, farsesco e mai realistico. Di Diva futura personalmente mi sono proprio innamorato. Giulia Louise Steigerwalt è davvero bravissima nel tratteggiare una figura emblematica quale quella di Riccardo Schicchi, interpretato da Pietro Castellitto che si conferma ancora una volta tra i migliori attori della sua generazione e non solo, proiettato qui in un periodo storico così particolare quale quello dell’avvento e della diffusione del porno in Italia. Piuttosto raro poter vedere qualcosa su quest’argomento da un punto di vista femminile, oltretutto completamente libero da pregiudizi. Bravissima Tesa Litvan nei panni di Eva Henger. Il ritratto di Schicchi che ne viene fuori è quello di una persona molto leale, che poneva il rispetto al centro dei propri rapporti, in un ‘gruppo di lavoro’ che viveva assieme condividendo tutto e mettendosi in gioco nel segno della reciprocità. Una storia che, venendo raccontata come una favola, genera un’empatia tale da far superare allo spettatore ogni barriera ideologica o moralistica che solitamente separa tali protagonisti e il loro milieu dalla cosiddetta “normalità”. Senza naturalmente nascondere le contraddizioni e alcune crude criticità che inevitabilmente connotano un ambiente di lavoro così singolare.

Orizzonti è ormai una sezione conosciuta e valorizzata dal pubblico e dagli addetti ai lavori perché è stata capace di guadagnarsi una propria credibilità fatta di intriganti scoperte e grandi conferme.

Temi attuali resi attraverso linguaggi artistici i più vari. Orizzonti e Orizzonti Extra rappresentano sempre di più la scena crossover di Venezia, costruendo un percorso di anno in anno sempre più vitale fatto di scelte libere e radicali. Una creatura che ha accompagnato per mano in questo ventennio in tutte le sue fasi di crescita. Come trova, oggi, questa sua creatura nella sua età adulta?
Non è sempre facile convincere i registi ad accettare la collocazione nella sezione Orizzonti, ancora meno in Orizzonti Extra, sezione che vi anticipo sin d’ora che l’anno prossimo cambierà nome, dato che Extra suona un po’ come una dimensione per così dire off, quasi da nicchia per pochi eletti, cosa che invece non è affatto. In chi non ha frequentato la Mostra negli ultimi anni esiste ancora forte la percezione che si tratti di sezioni in qualche modo di “serie B”, quasi si intendesse relegare queste pellicole in cantina per cavarsi un po’ d’impiccio. Si tratta di un pregiudizio davvero difficile da smantellare; in più di un caso abbiamo dovuto lottare parecchio con registi e produttori per far loro accettare una collocazione in questa sezione, che personalmente considero cruciale nella struttura del Festival, con una propria dignità, con una propria spiccata personalità, i cui film anno dopo anno stanno godendo di un successo di pubblico in sala sempre più crescente. Devo dire però che negli ultimi anni il lavoro per noi si è fatto sempre più agevole. Orizzonti è ormai una sezione conosciuta e valorizzata dal pubblico e dagli addetti ai lavori perché è stata capace di guadagnarsi una propria credibilità fatta di intriganti scoperte e grandi conferme. Quest’anno ci troviamo ad esempio Quiet life di Alexandros Avranas, regista che nel 2013 era qui in Concorso con Miss Violence e che arrivò a vincere tra l’altro il Leone d’Argento per la regia, nonché la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile a Themis Panou. Pur potendo ambire a ribalte differenti, Avranas ha accettato subito il nostro invito ad esserci in questa sezione perché conosce bene il Festival, capendo, perciò, che la nostra proposta non era in alcun modo squalificante o mortificante, anzi. Hemme’nin öldüğü günlerden biri di Murat Fıratoğlu è stata una sorpresa in tutto e per tutto: titolo arrivato sul filo di lana e come da buona tradizione piaciuto subito. Non avevo mai visto il processo di essiccazione dei pomodori e la sequenza iniziale di mezz’ora dedicata a questo lavoro è davvero di un’intensità rara: queste persone intente a tagliare i pomodori in quattro e a metterli sotto il sole a temperature cocenti, un addetto che getta sale per farli essiccare, il tutto con dei ritmi frenetici e travolgenti. Un regista esordiente che ha anche scritto la musica e la sceneggiatura, che recita, monta e produce girando come se non avesse mai fatto altro nella sua vita. Un meraviglioso e concretissimo visionario; sono persone come queste a farci credere che il cinema possa avere ancora un futuro. Molto difficile non innamorarsi poi di Mon inséparable, film di Anne-Sophie Bailly che ha come protagonista una mamma single alle prese con un figlio disabile che vorrebbe farsi una propria famiglia con una ragazza conosciuta al lavoro, innescando nella mamma dubbi sulla possibilità per il ragazzo di vedere realizzata compiutamente la propria felicità. Una storia bellissima e umanissima. Ritengo, senza esagerazione alcuna, che ogni singolo film di Orizzonti meriti attenzione, semplicemente perché si tratta di lavori personalissimi e originali fatti da registi pieni di talento che sentono forte la libertà di potersi esprimere senza preclusioni o preconcetti. Almeno un paio di segnalazioni infine per Orizzonti Extra lasciatemele però fare. Paola Randi ha già realizzato diversi film, ma La storia del Frank e della Nina lo considero il suo lavoro migliore, un film in cui viene inventato un nuovo linguaggio nel quale i giovani si riconosceranno, ritrovandoci i propri modelli sociali e culturali. Impossibile poi non menzionare almeno September 5 di Tim Fehlbaum, film di apertura di Orizzonti Extra: raccontando l’attentato agli atleti israeliani nel pieno dell’Olimpiade di Monaco del 1972 dal punto di vista di una redazione sportiva che deve improvvisarsi nella cronaca di uno degli eventi storici più feroci della storia contemporanea, il regista si pone delle domande etiche, morali e deontologiche che investono il mondo del giornalismo in maniera del tutto attuale e urgente. Dubbi che dovrebbero informare anche oggi la riflessione su quello che dovrebbe essere davvero il ruolo, il mestiere di giornalista nel restituire la vita, gli accadimenti reali lì dove si consumano nella loro tangibile concretezza.

Gli italiani di Orizzonti.
Mi è sembrato giusto aprire Orizzonti con il secondo film di Valerio Mastandrea, Nonostante, perché credo si meriti pienamente questa vetrina, questa posizione privilegiata di apripista di una sezione così caleidoscopica e sempre almeno sorprendente. Francesco Costabile, dopo essere stato a Berlino nel 2022 con Una femmina, porta a Venezia Familia, che ne testimonia senza ombra di dubbio la maturazione registica. Diciannove di Giovanni Tortorici è un film in assoluta controtendenza rispetto a quello che è il cinema italiano di oggi, un’opera molto rigorosa e personale, largamente, anche se non dichiaratamente, autobiografica in cui viene fuori tutto il suo “essere estraneo” ai tratti più tipici della sua generazione. Alla musica elettronica e alla discoteca, ai social e alla letteratura di consumo lui preferisce il rinchiudersi in un mondo del tutto personale i cui riferimenti culturali sono la musica antica, la letteratura e la filosofia medievali, con un giudizio indiretto ma molto esplicito sulla deriva sociale e culturale che tutti noi stiamo attraversando in questa età liquida, in questo tempo orizzontale. Un’opera prima che, pur con elementi fisiologicamente migliorabili, denota una personalità registica già molto forte e ben delineata.

La centralità crescente dei Classici. Ormai non più “mera” vetrina storica, ma autentica sezione di ri-scoperte che muove interesse, aspettative, passioni sempre più crescenti anche nelle giovani generazioni. Quali le chicche vere di quest’anno e come avete calibrato il programma?
Sono tutti lavori di una bellezza e di un interesse straordinari. È davvero un festival nel Festival questa sezione, che gode, e questo è il dato più intrigante ed incoraggiante da sottolineare, di una crescente partecipazione da parte dei più giovani, il che testimonia ancora una volta che la storia del cinema, se restituita a dovere, è linfa vitale per tutte le generazioni, non certo solo “mera” materia per specialisti o vecchi nostalgici. Tra tutti questi capolavori restaurati sicuramente una segnalazione speciale va al lavoro più sorprendente ed atteso quest’anno in selezione, vale a dire From darkness to light di Michael Lurie e Eric Friedler, il documentario sul film di Jerry Lewis The Day the Clown Cried (1972), incompiuto e inedito. Il grande comico statunitense diresse il film in Svezia, interpretando questo clown internato ad Auschwitz incaricato dai nazisti di intrattenere i bambini destinati alle camere a gas. Un film che ebbe una lavorazione molto complicata e che si rivelò un disastro economico per Lewis, caratterizzato tra l’altro da insuperabili problemi di comunicazione con gli interpreti che parlavano solo polacco. La cosa straordinaria è che vengono mostrati per la prima volta in assoluto spezzoni di questo film cui nessuno credeva vi fosse più traccia alcuna, pochi, ma significativi minuti di girato grazie a delle bobine miracolosamente scovate in alcuni archivi.

Immagine in evidenza: Alberto Barbera © La Biennale di Venezia – Foto ASAC

VeNewsletter

Ogni settimana

il meglio della programmazione culturale
di Venezia