Le desinenze

Lucia Veronesi presenta la sua nuova opera nella collezione permanente di Ca' Pesaro
di Elisabetta Gardin
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L’opera di Lucia Veronesi “La desinenza estinta” entrerà a far parte della collezione permanente della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, «andando ad arricchire il patrimonio figurativo, linguistico, tematico e le riflessioni sul mondo contemporaneo del Museo», come ribadito all’inaugurazione da Mariacristina Gribaudi, Presidente della Fondazione Musei Civici di Venezia.

Fino al 13 ottobre l’opera sarà visibile nel Portico al piano terra di Ca’ Pesaro nel contesto complessivo di un progetto espositivo, curato da Paolo Mele e Claudio Zecchi, in cui il grande arazzo jacquard di cinque per tre metri, tra il figurativo e l’astratto, dove emergono immagini di piante medicinali, nomi di popolazioni indigene e lingue a rischio di estinzione accanto a nomi di donne botaniche, scienziate e illustratrici, viene accompagnato da un video in stop-motion (che verrà presentato il 24 settembre nella Project Room) e da un apparato documentale visivo che descrive il processo di creazione e di definizione dell’opera stessa. Lucia Veronesi è un’artista multimediale da sempre interessata al tema del paesaggio e dello spazio. Si esprime con mezzi diversi: dal collage al video, dal disegno all’assemblaggio di tessuti. Nata a Mantova, ha studiato a Milano, dove si è diplomata in Pittura all’Accademia di Brera. Dal 2003 vive e lavora a Venezia. Cofondatrice di Spazio Punch alla Giudecca, dove ha il suo studio, fa parte del direttivo artistico di Yellow. Ha esposto in molte gallerie, fondazioni e musei in Italia e all’estero. Con il progetto La desinenza estinta Lucia Veronesi ha vinto la dodicesima edizione di Italian Council (2023), programma del Ministero della Cultura che promuove l’Arte Contemporanea italiana nel mondo. Il progetto è curato e prodotto da Ramdom in collaborazione con il Nordenfjeldske Kunstindustrimuseum MiST di Trondheim, Norvegia, sostenuto dall’Università di Zurigo – Dipartimento di botanica sistematica ed evoluzionistica e Dipartimento di biologia evoluzionistica e studi ambientali, dalla Goldsmiths University di Londra, da Ca’ Pesaro e dall’Istituto Italiano di Cultura di Oslo e realizzato con il supporto di Collezione Luca Bombassei. Il bellissimo catalogo, una mostra nella mostra, è edito da Marsilio Arte. L’opera parte dall’idea di cancellazione culturale ed è il frutto di una lunga e accurata ricerca in cui sono coinvolti ambiti e discipline diverse, dalla botanica all’antropologia, dall’ecologia all’arte tessile. Un lavoro articolato che si sviluppa su tre livelli. Il primo livello si basa sulla relazione tra l’estinzione delle lingue indigene – il trenta per cento di esse si estinguerà entro la fine del XXI secolo – e la conseguente scomparsa della conoscenza delle piante medicinali. Molte piante e i corrispettivi usi farmaceutici sono noti solo in certe lingue, gli indigeni di queste zone infatti si tramandano gli usi delle piante medicinali soltanto oralmente. Se le loro lingue e loro stessi si estinguessero, anche il sapere che custodiscono sparirebbe e così le piante continuerebbero a esistere sulla Terra, ma nessuno sarebbe più in grado di riconoscerle, nominarle e usarle. Il sapere medicinale delle culture indigene è quindi fortemente minacciato. Questa preoccupante possibilità si intreccia con un altro processo di rimozione (secondo livello) che riguarda le donne che si sono occupate di botanica dal Settecento al Novecento: scienziate, botaniche, esploratrici e illustratrici che hanno raccolto esemplari di piante ignote, contribuendo con i propri studi e ricerche alla loro classificazione e catalogazione e di cui non si sa molto, dal momento che i loro nomi e i relativi apporti scientifici sono stati non di rado rimossi o non riconosciuti. Le lingue stanno alle piante come i nomi delle botaniche stanno alla storia delle scienze: parole inghiottite dalle foreste o estirpate dalle enciclopedie. Il terzo livello, infine, è legato metaforicamente alla figura di una grande artista del Novecento, Hannah Ryggen, svedese ma naturalizzata norvegese, autodidatta, che nei suoi arazzi seppe far convergere istanze politiche e soluzioni formali realizzando monumentali opere manifesto che raccontavano il suo tempo. Abbiamo incontrato l’artista per approfondire questo intrigante, vitale progetto espositivo.

Il progetto e la sua messa in mostra. Come si presenta al pubblico di Ca’ Pesaro La desinenza estinta?
Il grande arazzo installato nel Portico del Museo combina immagini e parole, in una composizione che oscilla tra il figurativo e l’astratto. Dalla foresta emergono piante curative provenienti dall’Amazzonia, parti di corpi femminili, silhouette di botaniche dimenticate, nomi di piante in lingue indigene, nomi degli apparati del corpo umano collegate all’uso delle piante, nomi delle popolazioni e di lingue a rischio di estinzione e nomi delle botaniche. A tratti la parola si fa illeggibile scomparendo sullo sfondo, dietro le figure; a tratti, invece, riemerge con il suo pieno significato. L’arazzo diventa così una sorta di manifesto in cui si rende evidente il rischio di un’enorme perdita, di cui l’umanità è la causa e, forse, un possibile antidoto. La Corte interna del Museo, invece, si trasforma per l’occasione in un luogo di ricerca in cui i materiali che ho raccolto nei mesi di residenza tra Londra, Trondheim e Zurigo, e che successivamente ho rielaborato per la pubblicazione del catalogo, esplodono nello spazio fisico lasciando che lo spettatore entri in una dimensione allo stesso tempo discorsiva e visiva. La stanza accoglie anche un piccolo archivio con le biografie delle donne che si sono occupate di botanica dal Settecento al Novecento e la lista completa delle piante, e del loro uso medicinale, prese in considerazione per il progetto. A settembre invece nella Project Room verrà presentato il video che unisce immagini di archivio, riprese ad hoc dei giardini botanici di Londra e Zurigo e la tecnica di animazione dello stop-motion unita al collage. Il video è un viaggio visionario che pone l’accento su alcune botaniche del passato e le loro scoperte scientifiche.

Da dove nasce l’esigenza di esplorare il tema della cancellazione culturale?
Nei miei progetti più recenti ho iniziato a lavorare con la parola, considerandola elemento presente dell’opera. Parole, lettere, frasi che entrano a far parte del lavoro non solo con il loro significato, ma anche come elementi formali e decorativi della composizione. Durante alcune ricerche in rete ho letto di uno studio condotto da Jordi Bascompte e Rodrigo Cámara Leret che ho trovato molto inquietante ma anche affascinante e che, soprattutto, mi permetteva di coniugare nel lavoro le lingue e la botanica, tema che avevo già affrontato in un progetto precedente e che volevo ancora esplorare. Da qui ho costruito il progetto su più livelli, collegandomi alle biografie delle botaniche del passato e alla vita e al lavoro di Hannah Ryggen, che studiavo già da qualche tempo.

Che sensazione prova a far parte della collezione permanente di Ca’ Pesaro?
Pensare che La desinenza estinta entrerà nella collezione permanente del Museo ufficialmente a partire da luglio mi rende molto orgogliosa. Ca’ Pesaro è stato da sempre il mio museo preferito, dove ogni tanto mi rifugio per ammirare nelle sale Casorati, Rodin, Arturo Martini. Non avrei mai pensato di poterci entrare anche come artista. Ma quando ho deciso di fare domanda per l’Italian Council insieme a Ramdom, ho pensato che fosse il museo perfetto e ho mandato, piuttosto titubante, lo confesso, una mail alla direttrice, Elisabetta Barisoni. Il suo entusiasmo nell’accettare la sfida insieme a noi è stato un elemento fondamentale per lo sviluppo e la riuscita del progetto.

Con questo lavoro ha vinto l’Italian Council 2023, che l’ha portata a collaborazioni con altri paesi. In passato ha partecipato anche a numerose residenze artistiche in giro per l’Europa. Alla luce di tutte queste sue esperienze trova sia più facile oggi per un’artista o un artista italiani lavorare all’estero?
L’esperienza dell’Italian Council mi ha insegnato innanzitutto a osare e a chiedere. La ricerca dei partner culturali all’estero è stata intensa, ma quello che mi ha stupito è stata la rapidità con la quale ricevevo risposte, sia positive che negative, da parte di istituzioni, università, spazi no profit. Sicuramente l’attenzione verso gli artisti in alcuni paesi è più forte, con una maggiore attitudine a considerare l’artista come un qualsiasi altro professionista. In alcuni paesi poi esistono sindacati a difesa dei diritti degli artisti, fondi per promuovere progetti e sostenere nuove produzioni nell’ambito dell’arte contemporanea, del teatro, della performance. In Norvegia, ad esempio, ogni volta che un artista fa una mostra riceve uno stipendio e così anche lo spazio che lo ospita. Credo ad ogni modo però, confrontandomi anche con colleghi stranieri, che il mestiere dell’artista sia difficile un po’ ovunque. L’Italian Council rappresenta sicuramente una, o forse l’unica, delle possibilità per molti artisti italiani di poter realizzare concretamente nuove produzioni, di pubblicare cataloghi, di passare periodi di ricerca all’estero partecipando a residenze con un supporto economico.

Quali sono i suoi maestri, gli artisti da cui ha tratto massima ispirazione nel corso della sua formazione?
Mi sono diplomata in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. I pittori sono stati i primi artisti di riferimento per me. Potrei farne un lungo elenco: Philip Guston, Sigmar Polke, Peter Doig, Marlene Dumas, Dana Schutz, ma anche Pipilotti Rist, Ilya Kabakov, Gordon Matta Clark, fino a Otobong Nkanga, Ibrahim Mahama… Per non citare poi molti italiani, compresi i miei coetanei, che sono ottimi artisti che stimo e che seguo con assiduità. Vivere a Venezia mi offre la straordinaria possibilità di conoscere nuovi artisti grazie in particolare alle molteplici attività, mostre, festival che la Biennale annualmente organizza. Sono in continua formazione e molto curiosa, l’elenco è in continua evoluzione. Le donne sono state il soggetto principale di alcuni suoi lavori più recenti. Anche ne La desinenza estinta viene esaltato l’importantissimo lavoro di catalogazione, studio e illustrazione da parte di botaniche, esploratrici e illustratrici, scienziate rimaste in larga parte sconosciute. Un oblio tutto al femminile. Per le donne oggi la strada è ancora in salita, come vede il futuro a riguardo? Al tempo stesso non crede che il #MeToo, il politicamente corretto, possano portare gravi limitazioni espressive nel mondo dell’arte, della libera creatività? Il movimento #MeToo è corale e questa è la sua forza. Fa sentire le donne meno sole, le fa sentire parte di un gruppo, le protegge. Per troppo tempo certi comportamenti erano considerati normali. Averli scardinati ha scatenato una ribellione incredibile, al di là delle aspettative. Mi ha colpito che ci siano state reazioni completamente opposte. Da una parte una specie di movimento femminista d’élite, guidato da star e attrici famose. Dall’altro lato donne altrettanto celebri che denunciavano il pericolo di una caccia all’orco. Per me ci sono delle valide ragioni da tutte e due le parti. In più è stata un’occasione per ripensare alle proprie esperienze considerandole non solo come episodi isolati, ma leggendole all’interno di un vero e proprio sistema. Le statistiche parlano ancora chiaro: poche donne curatrici di musei o con ruoli dirigenziali con salari non adeguati e quotazioni di opere di artiste più basse alle aste. È vero che nelle ultime Biennali non poche artiste donne hanno ricevuto il Leone d’Oro, ma la percentuale di quelle rappresentate anche a livello nazionale è sempre molto inferiore rispetto ad artisti uomini. E non credo proprio che la causa sia la qualità del lavoro… Forse sposterei la questione. Mi piacerebbe parlare prima di tutto del rispetto in assoluto: il rispetto della persona e della professione. I tempi però sono cambiati. Artiste che erano attive negli anni Settanta mi hanno raccontato che si sentivano parecchio isolate in un mondo di artisti uomini. Oggi si vive in una condizione diversa, anche grazie a critiche militanti (ad esempio Lea Vergine, scomparsa qualche anno fa) che si sono battute per noi tutte. Parlare di “artiste donne” e “artisti uomini” porta a una separazione che etichetta il nostro lavoro come “femminile”, “di genere”, identificandolo con stili prestabiliti, pre-giudicati, di fatto mortificandolo. Parliamo invece di opera d’arte e basta, del lavoro dell’artista e della sua sensibilità, della professione di artista, senza specificazioni di genere maschile o femminile. Cerchiamo di rispettare questo e considerarlo un lavoro come tanti. Sarebbe bello che non ci fosse più bisogno di fare statistiche per contare quante artiste donne sono presenti in Biennale, nei musei, nelle mostre, ecc. Forse solo a quel punto avremo vinto tutti.

Ha scelto di vivere a Venezia dove tutto è arte. Cosa non sopporta di questa città e di cosa non potrebbe fare a meno?
Sono arrivata a Venezia nel 2003 per un tirocinio che sarebbe dovuto durare un mese e mezzo; ho finito per lavorare alla Biennale fino al 2007. È stata una bellissima esperienza tra ufficio stampa e coordinamento catalogo, ma altrettanto impegnativa. Per parecchi anni ho interrotto i miei progetti artistici e quando ho ricominciato è stato come iniziare da zero. A Venezia ho trovato una qualità di vita alta: in termini di relazioni umane, di facilità nello stabilire rapporti. Sono entrata in contatto diretto con una bella comunità di artisti, vivace e molto aperta. Ho iniziato a frequentare i mercoledì degli artisti nello studio di Maria Morganti e lì ho conosciuto bravissimi artisti che sono diventati anche grandi amici. Ho sempre considerato la città lagunare come un luogo per me provvisorio, ma sono più di vent’anni che sono qui e ora sento che mi appartiene. Non posso fare a meno della bellezza che stordisce, della presenza dell’acqua e della sensazione di vivere in un unico “interno”. Non sopporto certe logiche di potere che ne decidono i destini. A fine giornata posso avvertire che ogni singolo mattone di questa città è stanco e stravolto per quanto è stato calpestato da masse mordi e fuggi di turisti.

Dopo La desinenza estinta, quali sono i suoi prossimi progetti?
I prossimi progetti proseguiranno la tematica botanica e la conoscenza medicinale e avranno a che fare con il tessile e il collage. Per ora sto sviluppando un progetto per una bi-personale insieme a Laura Pugno nel 2025 a Torino, nella galleria di Francesca Simondi. Sto anche lavorando a un video per il nuovo progetto di restauro dei giardini e dell’orto del Redentore promosso da Venice Gardens Foundation. Avevo già collaborato con la Fondazione e la presidente Adele Re Rebaudengo realizzando un video in stop-motion per i Giardini Reali, restaurati qualche anno fa. Sto anche aspettando delle risposte per alcune residenze all’estero; se sarò selezionata potrò di nuovo partire…

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