La Tana era la destinazione finale della rotta commerciale del Mar Nero, la muda che la flotta veneziana percorreva tra Trecento e Quattrocento, partendo dalla città lagunare all’inizio della primavera per fare ritorno ad autunno inoltrato
L’entrata alle Corderie della Biennale si trova in Campo della Tana. Il toponimo rimanda a una località situata all’estremità orientale del Mare di Azov alla foce del fiume Don, nelle aree paludose in territorio russo a un’ottantina di chilometri dal confine del Donbass ucraino (giugno 2022). L’antica carta nautica del Mediterraneo, Mar Nero e di Azov di Giorgio Sideri del XVI secolo (Biblioteca del Museo Correr) ne segnala con evidenza la posizione geografica (immagine in evidenza); così come la cittadina ha risalto in una pagina miniata dell’Atlante di Battista Agnese del 1550 ca. (Biblioteca del Museo Correr), con le vaste pianure russe e tartare (fig. 2).
La Tana era importante perché è stata la destinazione finale della rotta commerciale del Mar Nero, la muda che la flotta veneziana percorreva tra Trecento e Quattrocento, partendo dalla città lagunare all’inizio della primavera per fare ritorno ad autunno inoltrato. In questo porto i veneziani avevano agenti e fondaci per il deposito delle merci e ogni anno alla Tana arrivavano almeno due galere concesse dalla Serenissima a mercanti privati che scaricavano argento e altri oggetti preziosi e ripartivano con pelli, pesce essiccato e balle di canapa destinate alla filatura dei cordami per soddisfare le esigenze della marineria.
Alla metà del Quattrocento, però, questa muda venne interrotta. La conquista ottomana di Costantinopoli nel 1455 non permetteva più alle navi veneziane il passaggio dei Dardanelli e l’espansione dell’Impero Ottomano nel 1461 anche al porto di Trebisonda – altra importante base commerciale veneziana – aveva bloccato ogni residua opportunità di rapporti commerciali verso l’Oriente russo e la Tartaria.
In previsione di ciò la Caxa del Canevo, costruita in Arsenale nel 1303 per sostenere le aumentate esigenze di cordami delle navi da carico a vela o navi grosse, rispetto alle sottili, le tradizionali galere a remi, aveva già cercato gli approvvigionamenti della materia prima in altre aree geografiche e principalmente nelle campagne del bolognese e del ferrarese, nelle Marche e nel Piemonte. La preoccupazione di raggiungere la completa copertura del fabbisogno indusse lo Stato veneziano prima a promuovere e successivamente a imporre, sotto un regime di monopolio, la coltivazione della canapa nelle campagne venete, accentrandone la produzione nei territori di Este, Montagnana e Cologna Veneta.
È del 1579, sull’area della Caxa del Canevo già esistente, l’inizio della costruzione delle nuove Corderie su disegno dell’architetto Antonio da Ponte, lo stesso che a Venezia avrebbe progettato qualche anno dopo il Ponte di Rialto (1587) e le Prigioni Nuove (1589). Un edificio – quello esistente – della larghezza di 21 metri, ripartito in tre navate con capriate sostenute da 84 grosse colonne collegate tra loro da soppalchi e sviluppato in lunghezza per 316 metri lungo il Rio della Tana per permettere, senza giunture, la filatura di grosse gomene. Un ingresso particolare rendeva indipendenti le Corderie dal resto dell’Arsenale e qui vi lavoravano le maestranze – conzacanevi o filacanevi – sotto il controllo di tre magistrati nominati dal Maggior Consiglio, i Visdomini alla Tana, ai quali era affidata anche la verifica, il collaudo e la certificazione di qualità dei cordami realizzati.
La produzione prevedeva un’iniziale cardatura della canapa, che arrivava compressa in balle, per liberarla dalle impurità e per pettinare le fibre tessili al fine di permettere le successive operazioni di filatura dei sottili trefoli raccolti su rocchetti. Quindi un dispositivo a ruota posto all’estremità dell’edificio torceva con un meccanismo a manovella i trefoli a creare i cavi, facendoli passare entro le scanalature di un mazzuolo. Un carrello appesantito da grossi massi per l’ottimale tensione regolava l’avanzamento del cavo che scorreva su cavalletti. Per ottenere cavi di dimensione maggiore, come per le gomene adatte a reggere gli ancoraggi prima dell’entrata in uso delle catene, si ripeteva l’operazione intrecciando tra loro cavi sempre più grossi e in numero maggiore. I prodotti all’interno delle Corderie erano ancora tutte corde, ma quando ne uscivano secondo la loro funzione a bordo assumevano il nome dal ricchissimo lessico marinaresco: cime per gli ormeggi, sartie per fissare gli alberi agli scafi, drizze per issare le vele, scotte per governarle e matafioni per ridurle. Completavano il vasto assortimento sagole e sagolini, passati anche dentro la pece per incatramarli, fettucce e spaghi di ogni calibro, resistenza e flessibilità. Solo al mezzo metro per azionare il battocchio della campana di bordo era concesso di mantenere lo stesso nome di “corda”.
Le sorti della Corderie seguirono quelle dell’Arsenale e, più in generale, di Venezia. Finita la Repubblica, francesi prima e austriaci poi cercarono di impossessarsi del know-how e delle attrezzature della grande fabbrica che per molto tempo era stata modello per la cantieristica internazionale.
Una piccola stampa (fig. 3) inserita nell’album titolato Oggetti più interessanti della Città di Venezia, datato 1833 e destinato ai viaggiatori del Gran Tour, ci restituisce una rara se non unica testimonianza delle Corderie ancora in funzione, immagine che sarebbe stata impossibile avere ai tempi della Serenissima, quando l’interno dell’Arsenale e i suoi segreti costruttivi erano rigorosamente coperti da censura di Stato. Con il tempo le Corderie furono dismesse e il grande edificio ridotto a magazzino fu interrotto da tramezzi che ne garantivano la stabilità, ma che ne compromettevano la piena prospettiva. In questo stato rimasero fino al 1980 quando furono scelte come luogo espositivo in occasione della I. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale. Ne è seguito dal 1983 un pregevole e rigoroso restauro condotto dalla Soprintendenza di Venezia che ha restituito all’edificio la sua struttura originaria ridonandole il suo fascino storico.
Nel frattempo a Venezia non si era ancora spento del tutto l’antico e sapiente mestiere dei filacanevi. Rimaneva ancora alla Giudecca una piccola corderia artigianale di proprietà della famiglia Inio, che nel 1955 venne acquistata dal Comune di Venezia e che ora, smontata, giace in un deposito militare dell’Arsenale in attesa di restauro e di una meritata valorizzazione.