C’è un po’ di Venezia alle Galapagos: i toponimi Punta Lido, Punta Malamocco e Arrecife Schiavoni, punti cospicui segnalati da fari in una recente carta nautica ecuadoregna, hanno una storia che risale all’epoca delle campagne di circumnavigazione attorno al mondo della Marina Italiana nella seconda metà dell’Ottocento.
Imbroglio, ballottaggio, quarantena, gazzetta. Parole nate a Venezia diventate di uso comune nella lingua italiana. Ghetto, lazzaretto e arsenale, quest’ultimo termine mutuato dalla lingua araba, sono anch’essi vocaboli della lingua veneziana migrati in tutto il mondo, come pure l’amichevole ciao. Anche lo stesso nome Venezia – piccola, grande, del nord, francese, brasiliana – è l’epiteto a scopo promozionale evocativo della più famosa città d’acqua accoppiato a centri urbani vagamente somiglianti. Ultima Dubai, modernissima città galleggiante nei dépliant turistici denominata la “Venezia d’Oriente”. Meno intuitivo spiegare come siano sopravvissuti al mutevole turbine della storia i toponimi Punta Lido, Punta Malamocco e Arrecife Schiavoni, punti cospicui segnalati da fari in una recente carta nautica ecuadoregna per l’entrata sicura nel Puerto Baquerizo Moreno nell’arcipelago delle Galapagos.
La lecita curiosità, al di là di ipotesi di fantasiosi viaggi di veneziani in terre tanto lontane, viene soddisfatta risalendo alla storia delle campagne di circumnavigazione attorno al mondo di navi della Marina Militare Italiana nella seconda metà dell’Ottocento.
L’Italia unitaria, all’epoca, raccoglieva l’eredità delle grandi Repubbliche marinare scegliendo una strategia economica e politica che puntava ad ampliare le rotte mercantili con la ricerca di nuovi mercati e tutelando gli insediamenti commerciali già avviati. Pochi mesi dopo la proclamazione del Regno, infatti, il Ministro degli esteri Bettino Ricasoli definiva gli italiani particolarmente “portati alla navigazione ed alle imprese commerciali”, ponendo le basi per una sinergia tra la Marina militare e mercantile in un’ottica volta a potenziare l’esplorazione e la valorizzazione economica specialmente delle rotte oceaniche, puntando particolarmente sul rafforzamento della presenza italiana in America meridionale.
Le missioni intorno al mondo della pirocorvetta Vettor Pisani si inserivano in questa prospettiva e il nome scelto per l’imbarcazione rinnovava i fasti marinari dell’ammiraglio veneziano del Trecento, raffigurato a mezzo busto nello sperone di prua. La nave, lunga 65 metri e larga 12, era stata la prima realizzata nell’Arsenale di Venezia per la Regia Marina dopo l’annessione all’Italia e varata il 22 luglio 1869. Con una stazza di 1.962 tonnellate, lo scafo in legno aveva una velatura a tre alberi che le consentiva di usufruire della forza del vento e, in aggiunta, poteva contare sulla propulsione ad elica di un apparato motore a vapore della potenza di 300 HP. La velocità di crociera non superava i quattro nodi l’ora, ma l’imbarcazione, per le buone qualità di affidabilità nella tenuta del mare e disponendo di confortevoli alloggiamenti e servizi per i 238 uomini di equipaggio, offriva i requisiti fondamentali per garantire comodità e sicurezza nelle lunghe navigazioni oceaniche.
Nel 1871 la Vettor Pisani partiva per la sua prima circumnavigazione del globo e compiva rilievi idrografici nel Mar Rosso. Recupererà poi in Nuova Guinea gli esploratori Beccari e De Albertis dati per dispersi. La missione dopo 27 mesi si concluderà nel 1873, percorrendo 48.000 miglia delle quali 40.000 compiute solo con l’ausilio delle vele.
Un anno dopo il suo rientro era nuovamente pronta per un nuovo viaggio di circumnavigazione verso gli scali della Cina e del Pacifico, che durò due anni e nove mesi, per rientrare infine all’Arsenale di Venezia. Durante questa seconda crociera, che terminerà nel 1877, furono effettuati importanti rilievi idrografici che permisero di rettificare la posizione geografica di alcune isole dell’arcipelago delle Molucche, riportate in modo errato nelle carte nautiche della marineria inglese.
Tra il 1879 e il 1881 la corvetta affrontava un nuovo importante viaggio nell’Estremo Oriente, spingendosi fino alle coste del Giappone, dove ebbe l’onore di essere la prima nave al mondo ad ospitare a bordo i principi imperiali.
Il primo marzo del 1882 passava nuovamente da Venezia per essere riallestita e rimodernata, dopo di che lo stesso anno, precisamente il 20 aprile, partiva da Napoli per la sua quarta e ultima campagna oceanica (America meridionale, Polinesia ed Estremo Oriente) sotto il comando del capitano di fregata Giuseppe Palumbo, formato nella marineria borbonica e successivamente approdato agli alti gradi della flotta sabauda.
La missione aveva ufficialmente il compito di raccogliere dati oceanografici, una vera e propria spedizione scientifica volta a dare lustro al genio italiano fornendo un importante contributo alle conoscenze dell’epoca in campo zoologico, idrografico, cartografico e meteorologico. Non si può escludere che tra i motivi celati sotto la promozione dello Stato italiano durante il lungo percorso in mari lontani vi fossero anche interessi militari finalizzati ad un’eventuale espansione coloniale, in un momento in cui tutte le potenze occidentali erano alla ricerca di terre vergini e ricche da poter sfruttare.
A bordo ufficiali e marinai competenti e motivati, a partire dal comandante Palumbo, che del viaggio ha redatto un particolareggiato Giornale di Bordo, coadiuvato al comando da Ruggero Caniglia e dal tenente di vascello Enrico Serra, ufficiale di rotta. I lavori idrografici con tracciamenti di nuove carte e correzioni di quelle già esistenti, in modo particolare dell’estremità dell’America meridionale, erano coordinati dal tenente di vascello Cesare Marcacci, che aveva imbarcato opportuni strumenti per il rilievo della natura dei fondali marini e per la misurazione delle profondità quale, ad esempio, posto sul ponte di comando di prora al posto di una mitragliatrice di ordinanza, uno scandaglio “Thomson” adatto ai grandi abissi, il primo acquistato dalla Marina Militare Italiana. All’alto ufficiale Marcacci dobbiamo anche la generosa semina dei tanti toponimi per luoghi sino ad allora inesplorati che riporteranno i nomi degli uomini dell’equipaggio, di importanti personaggi del tempo e di luoghi d’Italia.
Al tenente di vascello Gaetano Chierchia era stata affidata, invece, la missione di raccogliere esemplari di flora e fauna marina. A questo scopo la nave era stata dotata di idonei strumenti di raccolta e di un funzionale gabinetto scientifico fornito di attrezzature, di contenitori e sostanze chimiche per la conservazione dei campioni prelevati. Le relazioni scritte, pubblicate dalla Rivista Marittima della Marina Militare e dal Bollettino della Società Geografica Italiana, oltre che dai diari personali degli ufficiali, hanno contribuito alla ricostruzione storica di quel viaggio, così come le fotografie scattate dal giovane guardiamarina Francesco Tozzoni, che furono raccolte in un prezioso album e altrettanto sorprendente Diario, conservato nell’archivio storico di Palazzo Tozzoni, ora inserito nel circuito dei Musei Civici di Imola.
Dopo avere circumnavigato l’America, la Vettor Pisani passa nel Pacifico attraverso lo stretto di Magellano il 26 ottobre del 1882. Punta quindi a nord lungo la costa cilena, peruviana e colombiana su fino a Panama, da dove, dopo una lunga sosta, nel marzo del 1884 dirige la prua verso l’arcipelago delle Galapagos, tappa importante per le sue peculiarità naturalistiche e geologiche all’epoca da poco divulgate dagli studi di Charles Darwin. L’interesse della missione si focalizzava soprattutto sull’isola di Chatham, ora San Cristóbal, la prima che si incontra provenendo dal continente, dove era insediata una comunità agricola denominata “Hacienda Progreso” condotta dall’avventuroso imprenditore ecuadoregno Manuel Cobos, che istruendo la manodopera locale era riuscito a mettere a frutto piantagioni di canna da zucchero e caffè e a sviluppare un allevamento di bovini.
La corvetta arrivò in prossimità dell’isola la sera del 21 marzo del 1884 e sì ancorò prima nella Baia di Stephen e due giorni dopo nella baia di Porto Chico, rinominato “Vettor Pisani” così come raccontato negli scritti di Cesare Marcacci: «[…] Benché l’ancoraggio sia completamente aperto ai venti del 1° e del 4° quadrante, s’ebbe poco mare col vento da nord. Le lance che hanno ispezionato la costa hanno trovato assenza di pericoli fino a poca distanza da terra. La qualità del fondo varia fra alghe calcaree, scogli e sabbia. La terra di fronte all’ancoraggio è tutta verde dalle più alte vette al mare; non si vedono alti alberi ma solamente arbusti. Dall’ancoraggio un fumo c’indicò la posizione della colonia in alto al principio del versante opposto. La costa non offre acqua dolce; se ne trovò poca e salmastra, in pozzanghere; con facilità furono presi grossi e buoni pesci, aragoste e foche; si notò abbondanza di pesci cani. Una spedizione fu mandata alla ricerca della colonia e tornò dopo una giornata portando con sé il capo della colonia medesima don Manuel Cobos equatoriano. Il mattino seguente, dietro esplorazione eseguita dal sottotenente di vascello Bertolini […] e colla guida del Cobos, entrammo nel Porto-Chico, che è il porto della colonia. Sulla carta di Fitz-Roy esso è appena accennato senza nome. Per la sua piccolezza i coloni lo chiamano Porto-Chico, mentre chiamano Porto Grande la Baia Stephen. Noi lo trovammo sufficientemente ampio per contenere due bastimenti cioè lunghi circa 70 m, che vi possono stare a ruota, ne può contenere molti quando si ormeggia con cime a terra. Il porto è benissimo difeso contro la risacca di N.O. (nord ovest) da una diga naturale: d’altra parte il carattere eminentemente pacifico dell’arcipelago lo rende un vero bacino. Per entrarvi da qualunque parte si venga bisogna andare ben vicino allo scoglio Darlymple, che ha intorno a sé fondo a picco, e poi governare sulla congiungente di esso col centro del monticello di direzione che è in fondo al porto, così si schiva il frangente che è sulla dritta entrando e che è troppo immerso per essere visto bene. Noi ancorammo in 15 m, a marea quasi piena, nel centro dell’insenatura il cui fondo è regolare e si può avvicinare, tutta la costa è di sabbia mista con qualche pietra. Si è fatto il rilievo del porto e gli si è dato il nome di Vettor Pisani d’accordo col capo della colonia: prima di noi non vi era entrato nessun legno di qualche importanza. […] Altri nomi in quel luogo furono dati a ricordo lontano della patria come Punta del Lido, Punta Malamocco e Frangente degli Schiavoni […]».
Dopo una sosta nei giorni 23 e 24 «il Comandante e molti ufficiali, tra i quali lo scrivente [Roberto Pandolfini, altro guardiamarina imbarcato sulla Vettor Pisani], vanno a visitare la colonia, ovvero facienda (fattoria) del Cobos e fattone il giro a cavallo in compagnia del proprietario ed ammiratane la fertilità, nonché il modo come è tenuta, prese molte fotografie del luogo e de’ suoi abitanti, raccolti alcuni semi. Lieti del gentile e cordiale accoglimento avuto, ritornano all’imbrunire alla nave. Le lance ritornate dai lavori idrografici ci portano a bordo molte foche uccise a colpi di remo e di pietra; ne mangiamo il fegato e il cervello che troviamo eccellenti».
La Vettor Pisani ripartì da San Cristóbal il 25 aprile 1884 per esplorare le altre isole dell’arcipelago e quindi riprese la via del ritorno. Iniziò la traversata del Pacifico toccando le isole Hawaii e Filippine, poi proseguì verso Hong Kong, Shanghai, Singapore, passò per il Golfo di Aden e per il Mar Rosso, quindi, attraverso il canale di Suez, entrò in Mediterraneo e dopo tre anni di navigazione arrivò nel porto di Napoli il 21 aprile del 1885. Per altri dieci anni utilizzata come nave scuola dall’Accademia Navale di Livorno, la Vittor Pisani cessava il suo onorato servizio nel 1895.