In un percorso di ‘avvicinamento’ alla Cerimonia di premiazione del Premio Campiello, abbiamo voluto porre ai cinque autori finalisti della 61. edizione alcune domande. Risponde Marta Cai, autrice di Centomilioni (Einaudi).
Nata a Canelli nel 1980, vive da qualche anno a Curitiba, in Brasile. Ha tradotto molti libri. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su riviste («inutile», «il Reportage») e nel 2019 nella raccolta Enti di ragione (Edizioni SuiGeneris). Per Einaudi ha pubblicato Centomilioni (2023).
Essere parte della cinquina finalista del Premio Campiello quale impatto ha sulla sua realtà di scrittore?
La dimensione pubblica che, almeno per un certo periodo, comporta essere in questa selezione, è qualcosa di assolutamente inedito per me, ma è un’esperienza che sto facendo insieme agli altri finalisti, da cui sto imparando molto. Ecco, non so ancora valutare quali saranno gli effetti sulla scrittrice Marta Cai, ma personalmente è un’esperienza inattesa, a dimostrazione della trasparenza della selezione, e di grande apprendimento.
Quale la genesi del suo libro finalista?
Nella precedente raccolta di racconti avevo voluto indagare e mettere in scena gli effetti concreti delle illusioni, dei ricordi, delle proiezioni sulle relazioni umane, registrandole per così dire dall’alto, nella struttura che legava le storie tra loro. In questo libro invece ho voluto addentrarmi più in profondità, concentrandomi sugli effetti dirompenti, ma non necessariamente visibili, del desiderio, dell’impulso che ci muove verso l’altro o l’altrove, raccontando una storia piccola, con una protagonista “senza qualità” e apparentemente priva di moti vitali, tenuta in apnea in un mondo in cui qualsiasi slancio è violentemente annichilito o, peggio, codificato.
Quanto proietta di se stessa nei personaggi che racconta?
In una lettera a Freud, Stefan Zweig scrive: «Non esiste un prodotto dell’immaginazione senza fonti nella realtà: ogni invenzione è un ritrovamento»; ossia, più che proiettarmi, attribuendo al personaggio caratteristiche mie, avviene il processo inverso. Il mio punto di partenza è sempre un nucleo, un motivo esistenziale, e invento i personaggi che possano esserne animati, evitandone la riduzione a puri simulacri. E lì inevitabilmente mi ritrovo, più distillata che esposta.