Anne, regista teatrale, cambia casa dopo un divorzio doloroso che le ha strappato via la fiducia nell’amore.
Ben il gentile nuovo vicino, attore disoccupato, è subito c...
Nel film L’experiénce Zola di Gianluca Matarrese (Giornate degli Autori) una coppia nella vita e nel lavoro decide di mettere in scena Lo scannatoio di Émile Zola. Lo scannatoio o L’assommoir, nome di una bettola del tempo nel quartiere della Goutte-d’Or, è considerato uno dei capolavori di Zola, fondatore del realismo psicologico e sociale. A suo tempo fece scalpore, e la sua pubblicazione a puntate su un giornale venne in un primo momento proibita per oscenità. Zola ne descrive la trama come «il lento e inesorabile declino d’una famiglia operaia nell’ambiente degradato dei bassifondi di Parigi».
Il romanzo è del 1876 e ben presto ne venne tratta una versione teatrale, prima nella Capitale francese, poi, adattata e tradotta, a Londra con il titolo Drink. Entrambe le versioni sono centrate sulla storia della povera Gervaise, che, sfruttata e abbandonata dal cattivo Lantier, sposa il buon operaio Coupeau. Il cattivo si farà vivo di nuovo, il buono si farà traviare e Gervaise morirà tra umiliazioni e stenti.
Tre caratteristiche fondamentali del romanzo vengono puntualmente dimenticate: l’ansia di rappresentare in modo realistico ambienti, quartieri, boulevard, i personaggi con il loro argot (difficilissimo da rendere oggi anche nello stesso francese); la meticolosa descrizione di lavori artigianali (i monili in oro per esempio), di luoghi di lavoro (il lavatoio pubblico) o di macchine (il distillatore); e, infine, alcune gustosissime scene che calamitano l’attenzione del lettore. Come quella della lotta tra Gervaise e Virginie, che finisce con «tutto in bella mostra, cosce nude e natiche nude», con la mestola che «batte sulla pelle come la biancheria che doveva essere asciugata», o degli invitati al matrimonio che per sfuggire ad un violento temporale si rifugiano al Louvre: «Perché non mettere una didascalia?», è il commento su Le nozze di Cana. Le scene al Museo proseguono con l’ammirazione per le cosce di Antiope (Watteau), il generale stupore per l’usciere con il panciotto rosso e la livrea gallonata d’oro, la descrizione del parquet nella Galleria di Apollo (tirato a specchio, in cui si riflettono le gambe dei divanetti) e, ancora, con gli ammiccamenti di fronte alla Kermesse fiamminga di Rubens. Mi hanno ricordato, ma in chiave meno seriosa, l’Arca russa di Sokurov. Manca ancora, ma non ultima, una scena: il magistralmente descritto spuntino condito dalle risate e dalle confidenze delle fioriste nel laboratorio di Nanà, prima che inizi la tragedia più nera.
Man mano che leggo, vedo scene da film, inquadrature, tutto già pronto, descritto in dettaglio. Non servirebbe neanche il copione, è già tutto lì, pronto per farne un film.