Nell’autunno del 1826 dall’Egeo giunse a Venezia “Il Giusto”, un brick (bricco) da trasporto comandato dall’Alfiere Vito Celigoi con il pesante carico di rocchi di una colonna prelevati dal Tempio dorico di Poseidone a Capo Sunio, eretto nel V secolo a. C. sul promontorio meridionale dell’Attica.
Questo luogo denominato nelle carte nautiche e geografiche dell’epoca anche come Capo Colonna/e per le residue colonne ben visibili dal mare, era un valido punto di orientamento per le numerose imbarcazioni dirette a Egina e Atene e per quelle che incrociavano sulle rotte tra il Peloponneso, l’arcipelago greco e le coste turche. “Il Giusto” faceva parte della flotta austro-veneta con base a Venezia, residuo dell’Armada Serenissima passata alla fine della Repubblica all’Imperial Regio governo asburgico e comandata dal Viceammiraglio Amilcare Paolucci, Marchese delle Roncole. Questi, di nobile famiglia modenese, al servizio della Marina napoletana fino al 1799, poi di quella francese, con cui aveva combattuto la pirateria in Mediterraneo e gli inglesi, era stato incaricato dal 1806, nel periodo del Regno d’Italia, della riorganizzazione dell’Arsenale di Venezia e dei porti adriatici. Dal 1814 l’alto ufficiale veniva integrato nella Marina austro-veneta della quale, con brillante carriera, divenne comandante in capo ininterrottamente dal 1824 al 1844.
Ai tempi dell’arrivo della colonna da Capo Sunio, pur dichiarandosi neutrale nei confronti del conflitto greco-turco, la squadra navale veneziana incrociava nell’Egeo guidata dalla nave ammiraglia “Bellona”. Il compito strategico era quello di difendere gli interessi commerciali della Casa d’Austria, sostenendo la flotta turca con rifornimenti di munizioni e viveri e, con sequestri e rappresaglie, di reprimere nelle popolazioni elleniche i focolai rivoluzionari accesi fin dal 1821 per la lotta d’indipendenza dal dominio ottomano. In questo contesto storico si inserisce l’azione di Paolucci: prelevare una colonna di Sunio tra quelle già a terra collassate nel 1825, imbarcarla e portarla a Venezia.
L’impresa non era dettata da nobili sentimenti culturali e di conservazione come quelli che, nel solco della grande tradizione dello Statuario Veneto e delle prestigiose collezioni nobiliari della Serenissima, ispiravano i collezionisti veneziani del primo Ottocento, quali Giacomo Nani, Giovanni Davide Weber, Teodoro Correr, Emanuele Cicogna, Giannantonio Moschini, per citare solo i più noti. Le motivazioni che avevano indotto Paolucci alla profanazione del monumento della Grecia antica andavano cercate, piuttosto, nella consuetudine militare di procacciarsi trofei di guerra nelle azioni belliche da vantare poi in patria a futura propria immortale memoria. D’altra parte anche la flotta francese, ma specialmente quella inglese, che navigavano per quei mari nello stesso periodo, non si astennero da atti di saccheggio di reperti di antichità classica, a volte e in parte risarciti sotto la forma di modestissimi acquisti. Anche lo stesso Tempio di Poseidone era già stato privato di alcune sue parti di pregio, prima dell’azione del Paolucci. L’esempio era partito all’inizio del secolo e in particolare da come erano andate le cose per il Partenone di Atene, quando il diplomatico inglese Thomas Bruce conte di Elgin, con più acume culturale, ma con non meno cinismo, aveva imbarcato per l’Inghilterra le metope dell’insigne monumento greco, con statue e altri marmi decorati dell’Acropoli ateniese, per cederle poi al British Museum di Londra, aprendo da allora un contenzioso internazionale tra i due Stati non ancora risolto. Ma ritorniamo alla nostra storia. Il bastimento di Celigoi sbarcò il suo pesante carico in Arsenale senza che fosse stato ancora stabilito quale potesse essere la destinazione e il reimpiego della colonna in Venezia. Il rocco inferiore già allora mostrava segni dell’imbragatura sulla circonferenza, danneggiata durante le operazioni di carico o scarico. I perni di legno – i duroni –, che servivano a tenere saldamente sovrapposti i rocchi della colonna, vennero raccolti da Giovanni Casoni – architetto dell’Imperial Regia Marina, ingegnere idraulico, appassionato cultore di archeologia – che aveva pubblicato i disegni nella sua Guida per l’Arsenale di Venezia, edita nel 1829, con dedica in prefazione ad Amilcare Paolucci, e affidati al canonico Giannantonio Moschini perché li conservasse tra le altre memorie nel Museo del Seminario alla Salute. Dallo stesso Casoni, sostenuto da Giovanni Davide Weber, imprenditore e antiquario di origine tedesca, ma naturalizzato veneziano, venne avanzata la proposta di porre la colonna davanti alla porta monumentale dell’Arsenale accanto ai due leoni di Delo portati a Venezia da Francesco Morosini. Si intendeva così celebrare l’Imperatore d’Austria Francesco I e mostrare un segno tangibile dei successi navali ottenuti dalla squadra veneta nel Levante.
Il progetto però non ebbe seguito e qualche tempo dopo, nel 1830, Paolucci ordinò a Casoni di trasferire i rocchi nel giardino del suo palazzo, già della famiglia Erizzo, che sorgeva sul canale adiacente la chiesa di San Martino e lì rimontare la colonna. «Mise a profitto il Casoni quei tronchi ch’erano adatti, gli uni soprapponendo agli altri sormontati da un capitello e li rimanenti, che per qualsiasi motivo non potevansi utilizzare, servirono a basamento della colonna stessa». Suona così la testimonianza diretta riportata nelle sue Iscrizioni Veneziane da Emanuele Cicogna, il dotto erudito veneziano che aveva seguito da vicino tutta la vicenda, la quale dall’aulico pubblico intento celebrativo aveva oramai preso più banalmente un risvolto del tutto personale.
Questa prima ricostruzione non durò però a lungo, perché qualche tempo dopo la fortuna di Paolucci declinò, accusato di non essere intervenuto con la necessaria energia a debellare i sentimenti patriottici indipendentisti diffusi tra i suoi ufficiali, alcuni dei quali iscritti alla Carboneria e alla società segreta Esperia. Tra questi i fratelli Bandiera; in particolare il più giovane, Emilio, addirittura all’epoca prestava servizio come aiutante del Paolucci e, dallo stesso autorizzato a leggere la posta d’ordinanza, era riuscito a intercettare un messaggio dell’Alto comando con il quale veniva ordinata la sua cattura. Questo gli permise di fuggire e mettersi in salvo. Paolucci, per ciò inquisito, fu costretto a un rapido e anticipato pensionamento a seguito del quale lasciò Venezia per ritirarsi nel 1844 nel castello del Catajo nei Colli Euganei, dove finì i suoi giorni un anno dopo. Da allora il palazzo Erizzo passò di proprietà ad Angelo Busetto, detto “Bubba”, ricco commerciante, il quale acquistò nel 1855 l’area dove c’era la fabbrica di vetro e cristalli di Giuseppe Briati, sulla fondamenta che ora prende il suo nome, nei pressi della Chiesa dei Carmini. Qui vi costruì un «elegante casino con giardino con rimasugli di greche e romane antichità. Fra queste sono alcuni ruderi di una greca colonna scannellata portata a Venezia dal Viceammiraglio Amilcare Marchese Paolucci».
Questa ancora la testimonianza di Emanuele Cicogna apparsa nel 1863, dove egli stesso proponeva, ritenendo il tempio di Poseidone dedicato a Minerva, di affiggere una lapide, peraltro mai realizzata, che ricordasse l’intera storia.
DAL TEMPIO DI MINERVA AL CAPO SUNIO
AMILCARE MARCHESE PAOLUCCI
VICEAMMIRAGLIO
COMANDANTE SUPERIORE DI MARINA
E DELLA VENETA SQUADRA IN LEVANTE
QUESTE RELIQUIE
IN VENEZIA PORTATE NEL MDCCCXXVI
E NEL PROPRIO GIARDINO A S. MARTINO
ERETTE NEL MDCCCXXX
ANGELO BUSETTO BUBBA
DELLE PATRIE COSE AMANTISSIMO
IN MEMORIA DI QUELLA ILLUSTRE SPEDIZIONE
QUI RIPONEVA NEL MDCCCLXII
Da allora la colonna del Tempio di Poseidone venne per lungo tempo dimenticata, non oggetto di studio né segnalata dalle guide turistiche, perché confinata in uno spazio privato e ricoperta dalla rigogliosa vegetazione di una pianta di glicine. Si deve la sua ‘riscoperta’ a Luigi Beschi, insigne archeologo, formatosi all’Università di Padova e passato poi come professore ordinario di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana in diverse università italiane, prima di approdare alla Scuola archeologica italiana di Atene. In un suo articolo apparso nel 1972 – Disiecta membra del tempio di Poseidon a Capo Sunio – oltre a ricostruire la storia dell’importante reperto veneziano, ha dato notizia di un’altra colonna dello stesso tempio e sottratta nello stesso periodo, che venne trasportata dall’ammiraglio inglese sir Augustus Clifford nel parco del Duca di Devonshire a Chatsworth. Un altro rocchio sempre appartenente allo stesso complesso monumentale è stato rintracciato al British Museum. Attualmente la colonna è all’interno del giardino della Palazzina Briati, area pubblica dove ha sede un Istituto dell’Università di Ca’ Foscari. Si presenta montata su base con cinque rocchi sovrapposti invece degli otto originari, mancando del primo elemento e, come risulta evidente nella ricostruzione grafica, per la mancanza di continuità lungo il profilo verticale rastremato, di altri due elementi tra il secondo e il terzo rocchio e tra il quarto e quinto. Sopra la base del capitello dorico è stato collocato un incongruo leone ottocentesco. Motivo di interesse sono tre scritte sulla pietra, incise dagli equipaggi di alcuni bastimenti di passaggio a Capo Sunio: ZEPHIR Bric Du ROI 1816; AUNE 1814; FLEUR DE CHEVALIER 1822.