Niente di strano che un western inizi in città sotto la pioggia, ma in Canyon Passage l’inquadratura, angolata da un tetto, ha un’oggettività grigia e quotidiana: un West realistico e fangoso dove tutti si lamentano del tempo. Poi si esce dalla città melmosa e bagnata e Tourneur ci dà bellissime inquadrature della natura, con quel senso della bellezza degli spazi liberi che caratterizza Il grande gaucho (e persino un western molto urbano come Wichita). Degno figlio di suo padre, il regista del muto Maurice Tourneur, Jacques Tourneur fu uno dei grandi stilisti dei B-movies.
Al fondo del film sta la contrapposizione fra due modi diversi di intendere la Frontiera: stanziale (la buona terra dove stabilirsi) e non stanziale (i grandi spazi dove viaggiare). Il protagonista Logan (Dana Andrews) è tutto per la seconda opzione. Non per nulla la sua grande ambizione è di fondare un servizio di diligenze. Nella prima parte del film un paio di abili allusioni – come il carro dei coloni che vanno via da un posto perché sta diventando troppo affollato – servono a far rima con i sentimenti di Logan. «Voi siete felice solo quando siete in viaggio», gli dice Lucy (Susan Hayward). Il film contiene una bellissima scena di costruzione della casa per una coppia di giovani sposi per mano dell’intera comunità; ma stabilirsi, come loro, in un posto non è per il cuore di Logan. Che infatti è diviso – il film ha uno sviluppo psicologico particolare per un western dell’epoca, con un’affascinante libertà dei sentimenti – fra due donne opposte, Lucy che ha un animo di viaggiatrice come lui e Caroline (l’inglese Patricia Roc) che sogna una casetta da cui non muoversi più. Però su questa colonizzazione (non priva di tratti selvaggi) pesa la presenza dei padroni originari della terra: gli indiani.
Interessante western di serie B in cui si intersecano varie tracce narrative (l’interesse del protagonista per due donne diverse, l’amicizia col suo socio in affari schiavo del gioco, un killer che vuole ucciderlo, la rivolta dei Nativi).