Quando si pensa alla Mostra del Cinema l’attenzione del pubblico va subito, in forma esclusiva, verso lo star system, il red carpet, le facce, insomma, che danno peso mediatico all’evento. Eppure un festival di questo livello è una macchina complessa mossa da molti protagonisti che lavorano dietro le quinte, che sono poi quelli che alla fine governano i fili dei delicati ingranaggi che muovono questa dieci giorni internazionale di grande cinema. Giancarlo Di Gregorio, direttore Festival e Mercati di Cinecittà, è certamente una di queste insostituibili figure, vero decano del fare rete nella grande arena lidense. Giunto alla sua 39esima edizione consecutiva in presenza lavorativa, ci è sembrato interessante interrogarlo su come questa macchina delle emozioni si sia evoluta in questi ultimi quattro decenni, cercando di provare a guardarla dal di dentro, questa macchina in azione.
90 anni di Mostra del Cinema, 79esima edizione. Numeri a un passo dalle tre cifre. Cinecittà accompagna praticamente da sempre la Mostra con la sua centrale presenza nel cuore vivo del festival. Come ha visto cambiare in quasi quattro decenni di partecipazione questa grande macchina dello spettacolo?
La mia prima Mostra è stata quella del 1984, seguita nell’85 da Cannes. Non ho mai bucato un’edizione, tranne quella di Cannes saltata per la pandemia due anni fa.
Posso dire di vantare una discreta memoria storica e personale. Ho visto ristrutturare le stanze dell’Hotel Excelsior, la hall e la corte moresca e conosco personalmente gran parte del personale dell’albergo e della Mostra. Alcuni di loro li ho visti crescere fino ad arrivare alla pensione.
La Mostra è cambiata perché è cambiato un po’ tutto, in primis il modo di realizzare la Mostra stessa. L’aspetto forse più problematico oggi è che c’è troppa carne al fuoco, troppe cose a cui dover dare retta per un appuntamento che si è espanso all’ennesima potenza.
Sono cambiati i contenuti, moltiplicati a dismisura soprattutto per chi ci lavora dall’interno e ne segue tutte le attività: solo oggi ho ricevuto quattro diversi inviti per altrettanti appuntamenti, ad orari ravvicinatissimi. Una tendenza che di sicuro dopo i due anni di pandemia ha subìto un’ulteriore impennata, con il sentimento diffuso di dover recuperare il tempo perduto facendo scorta di socialità. Insomma, una grande, vitale energia, ma al contempo una evidente frammentarietà della proposta. Del resto è il cinema di oggi, sempre meno monolitico, sempre più atomizzato.
Anche quest’anno il vostro Italian Pavilion ha svolto il tradizionale, prezioso ruolo di imprescindibile punto di incontro per gli operatori del settore. Incontri, conferenze, dialoghi che hanno coinvolto il meglio del nostro cinema e non solo. Quale il bilancio di questa edizione che si sta chiudendo e come questa vostra funzione nel contesto della Mostra si sta evolvendo?
L’Italian Pavilion è senza ombra di dubbio l’epicentro degli incontri e delle attività collaterali ai film in Mostra. I contenuti che proponiamo crescono di anno in anno, quindi anche noi non siamo immuni da questa tendenza di moltiplicare eventi ed attività; la stanchezza nello star dietro ad eventi che si susseguono a ritmo incalzante è però ripagata dalla loro ottima riuscita, di cui siamo ovviamente contentissimi.
Anche quest’anno abbiamo una serie di incontri dal carattere fortemente istituzionale per la promozione del cinema italiano nel mondo, perché in fondo questa è una delle mission principali che dobbiamo perseguire, ossia quella di rappresentare una sorta di Farnesina dell’universo cinema. Di fatto siamo un autentico braccio operativo del Ministero dei Beni Culturali.
È ancora percepibile un tratto unico, distintivo della Mostra del Cinema che la differenzia dagli altri grandi festival generalisti internazionali?
Venezia è connotata da una dimensione altra rispetto a Cannes e Berlino, innanzitutto per il contesto che la caratterizza, che oserei definire “familiare”, in cui tutti si incontrano e si conoscono, vivendo il festival faccia a faccia, fianco a fianco, anche nei momenti di vita quotidiana in cui il cinema non c’entra, come i pranzi e le cene.
Cannes e Berlino sotto questo punto di vista sono molto più dispersive e meno umane, a vantaggio magari della dimensione glamour, in particolare Cannes naturalmente, che per quanto mi riguarda non ricerco ossessivamente. Qui è tutto raccolto, compatto, un villaggio piccolo sospeso tra mare e laguna che alla fine permette di confrontarsi e incrociarsi in un clima davvero “italiano”, conviviale ecco. Questo credo sia, quindi, il tratto irriducibilmente proprio di Venezia.
Il ruolo di Cinecittà è stato da sempre più che cruciale per le sorti del cinema italiano, in termini produttivi, di indirizzo, di ricerca storica. Che ruolo effettivo svolge oggi la vostra Istituzione in un’industria cinematografica attraversata da violenti scossoni che ne stanno stravolgendo l’identità più profonda e la secolare grammatica?
Grazie alla nuova governance, Cinecittà sta di sicuro attraversando un momento di forte rilancio, accelerato dai contributi previsti dal PNRR. Tutti gli ambienti di lavorazione sono pieni, le produzioni fanno la fila per venire a girare da noi, comprese quelle hollywoodiane come da tradizione. È da poco venuta a girare qui, tra gli altri, Angelina Jolie. Da questo punto di vista, grazie a questa nuova linfa, a questa rinnovata spinta produttiva e creativa, siamo più che in salute.
Di sicuro gli investimenti portati avanti dal Ministero nel comparto dell’audiovisivo testimoniano una volontà ferma di far compiere importanti passi avanti a questa industria, con sforzi che acquistano ancora maggiore importanza se rapportati al momento difficile che stiamo vivendo, da un punto di vista sociale ed economico. Certo, poi non tutto ciò che ne esce da questo sforzo economico è degno di nota, anzi. Troppi film prodotti con esiti spesso non all’altezza della tradizione creativa del nostro cinema. Noi comunque facciamo il nostro, nello specifico sviluppando le nostre attività produttive, in termini generali cercando di fare rete, di aiutare il comparto complessivo dell’industria cinematografica. La cultura è un’industria e come tale va vista, fuori da ogni sterile logica elitaria, di nicchia. Molti, ahinoi, si ostinano a ripetere che «con la cultura non si mangia»; fortunatamente le smentite a riguardo non mancano e si susseguono a ritmo incalzante.
La crisi delle sale, il bisogno di inventarsi sempre nuove idee per garantirne la sopravvivenza. Si ha la sensazione che l’unica reazione nei confronti di questa grande crisi che investe oggi il settore sia quella di giocare di rimessa, catenaccio all’italiana insomma. Non crede che per provare a immaginare e disegnare un altro futuro sia necessario dotarsi di una visione sistemica concentrica, innanzitutto da parte di chi istituzionalmente deve governare e indirizzare questo grande comparto dell’industria culturale.
Solo in questa edizione abbiamo già allestito tre panel su questo tema, su come riportare la gente in sala in un momento in cui la fruizione dei film è sempre più materia “casalinga” alla luce della rapidissima esplosione del fenomeno delle piattaforme digitali. Partendo dal presupposto che le sale andrebbero di sicuro rimodulate, rimodernate nelle loro modalità di fruizione, non possiamo fare a meno di considerare tutto quello che è successo negli ultimi due anni, quando ci si è ritrovati costretti a stare in casa e molti di noi hanno sottoscritto abbonamenti per poter vedere film e serie dalla propria smart tv, con un’accelerazione vorticosa di una tendenza che già si stava diffondendo a macchia d’olio, da ben prima della pandemia. Bisogna poi considerare il fatto di come una forte quantità produttiva non sia sinonimo di alta qualità produttiva, anzi. Troppi film il cui livello non invoglia ad uscire di casa per andarli a vedere. Pensiamo ad esempio alle grandi città, dove andare al cinema vuol dire affrontare una serie di spese accessorie che vanno dal parcheggio al trasporto, spese che ora la gente non affronta esattamente a cuor leggero. Quindi a maggior ragione bisogna lavorare con grande cura nella qualità del prodotto, a partire anche dalla sua confezione. Le sale devono rinnovarsi, questo sforzo va fatto perché non è più il tempo che si va al cinema a prescindere dalla qualità del servizio per così dire accessorio. Naturalmente è un processo difficile, dispendioso e comunque ad alto rischio di fallimento. Però l’alternativa non c’è: o innovi o perisci. Ciò detto, credo non si debba smettere di essere ottimisti. Vedo e sento fermento vivo, autentico, tangibile attorno al nostro mondo di immagini in movimento. Sarà ancora una volta la creatività a tirarci fuori dai guai, ne sono convinto.
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