L’alfabeto di Greenaway

Nuova vita al Giardino di Compton House grazie a BFI National Archive
di F.D.S.
  • venerdì, 9 settembre 2022

Ricordo l’effetto che mi fece la visione di questo film 40 anni fa: un senso di accecante bellezza per le scene, ciascuna di inquadratura perfetta ed appagante come i quadri di Poussin, ma anche una sensazione di straniamento, di vago disagio. Come se non avessi assistito semplicemente ad un film, ma ad un ‘rito dello sguardo’ il cui fine ultimo fosse la decostruzione del film, la sua scomposizione in tante parti separate che non erano più in grado di restituire il senso compiuto, unitario dell’opera.
Come se un umanista enciclopedico del ‘500 fosse rinato nel ‘900 sotto le spoglie di Greenaway e, attraverso quel film, ci avesse sottoposto un ‘enigma’ da risolvere, la cui soluzione, tuttavia, prevedeva un ordine di valori diverso da quello cui eravamo abituati sino ad allora. Come se ci venisse detto che il ‘cinema come sceneggiatura illustrata’ non bastava più, che camera, attori, trama, script, luci, costumi fossero sì ancora necessari, ma tuttavia sottoposti, aggiogati ad un ordine superiore, quello della finzione come strumento di organizzazione della realtà visibile, per cui il cinema, pur mantenendo la sua maschera, diventava «il riflesso di 8000 anni di pittura occidentale» (così Greenaway in quel bel documentario girato dalla moglie Saskia Boddeke L’alfabeto di Peter Greenaway).
Enciclopedismo, coazione a ripetere, spasmodica attenzione alla inquadratura, scene come riproduzioni di ipotetici quadri tra vedutismo francese e pittura olandese, profondità di campo come modo abituale di vedere il mondo: tutte le ossessioni di Greenaway in questo film sono diventate materia plasmante di un oggetto diverso, nuovo, impossibile da imitare (ci sono gli epigoni di Greenaway? credo proprio di no). E artificiale, supremamente artificiale, nel suo intendere la storia come un continuo dipanarsi di enigmi e di metafore. «Non lasciare che la verità ostacoli una buona storia» dice ancora il Nostro. E in questo suo rispetto e celebrazione della storia, sviluppata però non secondo il canone letterario dello story-telling ma secondo l’eredità della pittura europea, sta il senso ultimo del cinema di Greenaway. Sì, certo, non tutti i suoi film successivi gli sono venuti bene come questo, ma tutti insieme costituiscono un opus imperdibile di un grande maestro dell’arte cinematografica contemporanea.

I MISTERI DEL GIARDINO DI COMPTON HOUSE

Nel cinema catalogatorio, formale, enciclopedico di Greenaway il paesaggio diventa l’enigma da risolvere, ma il pittore Neville non riesce a risolverlo perché si limita a “dipingere ciò che vede, non ciò che sa”. Insieme a Blade Runner, uscito nello stesso ...

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