L’isola divina

Nikkatsu reastaura il classico di Imamura Profound Desires of the Gods
di Giorgio Placereani
  • mercoledì, 7 settembre 2022

Fra i massimi registi del cinema giapponese in assoluto, Shōhei Imamura (1926-2006) è autore di un cinema violento, vitalistico, giocato sull’esistenza e le passioni di sbandati ed emarginati nella loro incontenibile struggle for life e sulla materialità sensuale del corpo. Esplora la parte bassa della società giapponese, la sua carnalità, le sue pratiche immorali, dal furto alla prostituzione, all’omicidio, in film dall’intreccio libero ed episodico, non senza un impulso documentaristico (del resto Imamura è anche autore di splendide opere non-fiction come La storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista).
Ne Il profondo desiderio degli dei (1968), suo primo film a colori, Imamura si proietta in un territorio semi-mitico. In un’isola immaginaria del Sud del Giappone moderno vive una popolazione primitiva che la ritiene creata direttamente dagli dei nella sua lussureggiante rigogliosità. Un ingegnere di Tokyo visita questo mondo panteista, luogo dell’istinto e dei sensi (in opposizione alla tradizione giapponese), di una cruda purezza pre-civile. Un incesto, sebbene punito, nondimeno rimanda alle origini mitiche del Giappone con la coppia creatrice dei fratelli divini Izanami e Izanagi. Ma questo mondo è alla vigilia della sua definitiva distruzione attraverso l’irruzione della contemporaneità e del turismo. Le inquadrature sono nobilitate da una grande sapienza compositiva (le belle partizioni dello spazio con gli alberi, le linee orizzontali che si slanciano verso l’alto). Imamura delinea con potenza un rapporto uomo-natura segnato dalla grande presenza degli animali (è menzionata l’unicità dei viventi: anche l’erba), che poi si dirada con la fine del senso religioso originario (simbolismo della lucertola uccisa dalla scavatrice) perdendosi nella civilizzazione.

IL PROFONDO DESIDERIO DEGLI DEI

Un anno dopo il film di Suzuki, altro fallimento per la Nikkatsu con questo film troppo anti-mainstream per i gusti del tempo. E anche qui, per un decennio circa, Imamura si ritirò a fare documentari.

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