Nato a Roma nel 1986, Claudio Casale si trasferisce in Asia dopo la Laurea in Economia. Di ritorno a Roma si avvicina alla regia e realizza due documentari. Già Venezia nel 2018 con My Tyson, che vince il Premio MigrArti, e nel 2020 in concorso nella sezione VR Expanded, L’anno dell’Uovo è il suo primo film di finzione, realizzato grazie al bando Biennale College.
Come è nata l’idea di questa opera prima di Biennale College?
In una società sempre più complessa e fuori controllo a me interessava molto raccontare l’idea di una microcomunità, dimensione nella quale tutti in diverse modalità ci troviamo immersi nel nostro quotidiano. Non fa naturalmente eccezione la rete, segnatamente qui il settore dei forum online di appassionati di cinema, in cui si è tutti legati da comuni interessi. Nel film i due ragazzi protagonisti, Adriano e Gemma, i bravissimi Andrea Palma e Yile Yara Vianello, seguendo il loro istinto e il desiderio di un modello di vita diverso, decidono di entrare nella comunità dell’Uovo. Ma nessun luogo può accogliere le sfumature imperfette che viviamo in ognuno di noi se prima non siamo noi stessi ad accettarle. Solo allora, forse, si può ricevere un nuovo dono, magico e inaspettato.
Cosa accade se all’interno di questa piccola porzione di mondo qualcuno si trova a fallire, entra in collisione con quei valori? Cosa succede all’interno di una comunità stretta se c’è un sogno utopico da realizzare e dei soggetti si scontrano con queste crisi di valori?
Mi interessava nello specifico fare un discorso non tanto sugli altri, quanto sulle nostre stesse percezioni che ci guidano spesso a vedere dei conflitti, che possono esserci o meno. È la sofferenza che cambia la nostra percezione all’esterno, volevo raccontare qualcosa che andasse oltre il massimalismo del buono o cattivo. Lo spettatore dovrebbe chiedersi cosa stava realmente accadendo in quello che ha visto, concentrando la propria attenzione più sulle sfumature che sulle sensazioni più nette, anche perché non è raro che il nemico sia dentro di noi.
Gemma e Adriano sono una giovane coppia in attesa del primo figlio e hanno deciso di farlo nascere lontano da un mondo sempre più competitivo e solo dedito al profitto. Si sono quindi rivolti alla comunità dell’Uovo: un gruppo spirituale che vive in contemplazione della fe...
Nel suo film la maternità passa quasi più attraverso lo sguardo maschile e il tono del racconto è intriso di una sensibilità per nulla retorica.
Per me era importante conoscere le emozioni di Adriano/Andrea Palma. Ho scritto la storia e non potevo non pensare che l’uomo nell’affrontare la maternità ha un ruolo ovviamente meno da protagonista. Volendo poi ampliare il discorso, ho affrontato anche il tema del peso che la questione del genere ha oggi nella nostra società. In questo senso la Comunità dell’Uovo, impostata sulla maternità, pone l’uomo in una posizione collaterale alle donne, e nel momento in cui l’esperienza viene vissuta da compartecipanti basta un nonnulla perché si crei un senso di disorientamento. Mi interessava indagare lo stato confusionale che si viene a creare a riguardo anche in una generazione più giovane della mia; una condizione sulla cui complessità Adriano, mentre giravamo il film, si è con me soffermato molto. E poi i miei produttori sono due sardi…: il lavoro sviluppato con Francesca Vargiu e Matteo Pianezzi della società Diero di Olbia è stato un’ulteriore connessione con la Madre Terra e il tema del matriarcato.
Il film è stato realizzato da Biennale College. Che tipo di esperienza è stata?
Il percorso di Biennale College ha rappresentato per me un’opportunità fantastica, una lezione importante con Maestri di altissimo lignaggio, che ci hanno donato ore del loro tempo ponendoci di continuo delle domande dettagliate sulla storia, sui personaggi di cui volevamo trattare. Un’esperienza illuminante, anche considerando che se avessi dovuto seguire un percorso produttivo tradizionale avrei dovuto attendere degli anni prima di poter realizzare un film scritto oggi. Si trattava di una storia per cui avvertivo una certa urgenza, volevo girarlo il prima possibile. Questo grazie al bando di Biennale College è stato quindi possibile.
Lei ha un curriculum con laurea in Economia, quindi un percorso non totalmente convenzionale nella formazione di regista.
Ho cercato per più di dieci anni di resistere in tutti i modi dal fare ciò che più mi piace, poi la vita mi ha riportato al mio punto formativo di partenza, ossia quello artistico. Ho scelto in quella fase di ‘resistenza’ la facoltà di Economia ed ho fatto lavori molto diversi e decisamente lontani dal settore audiovisivo. Ho vissuto all’estero, in Asia, Sud Est Asiatico, India e Sud America e lì, lontano da casa, ha preso sempre più forma un’idea di uno sguardo, di un’osservazione propria ed interiore del mondo. Sono partito dal documentario, però sicuramente la bellezza di quello che chiamo il mio “giro lungo” mi ha dato la possibilità di capire meglio perché volevo fare davvero questo lavoro, vale a dire raccontare cose molto specifiche che possono interessarmi.