Versione cinematografica di uno degli ultimi testi teatrali di David Mamet, tradotto e portato sulle scene italiane dallo stesso Barbareschi. Uno psichiatra vede infrangere la s...
Ho ‘incontrato’ David Mamet anni fa nelle aule universitarie, dove i saggi contenuti nel suo I tre usi del coltello erano un must per chi voleva studiare cinema, sceneggiatore, critico o attore che volesse diventare. Drammaturgo, sceneggiatore, regista e saggista statunitense, David Mamet è un mostro sacro sia nella Hollywood del cinema che nella Broadway teatrale. In particolare ho apprezzato moltissimo le sue sceneggiature, da quella de Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson (1981) a quelle de Il verdetto di Sidney Lumet (1982), de Gli intoccabili di Brian De Palma (1987) e di Hannibal di Ridley Scott (2001).
Le sue numerose pièce teatrali hanno avuto un successo internazionale, a partire da Glengarry Glen Ross, che gli valse un Premio Pulitzer e che passò in Italia nel 1985 per la regia di Luca Barbareschi. A Spoleto nel 1992 vidi anche Oleanna, ispirata ad un caso giudiziario allora in corso (Anita Hill/Clarence Thomas) che Mamet trasforma in una storia di accuse di molestie sessuali mosse da una studentessa nei confronti del suo professore universitario, un’opera che ritorna oggi di grande attualità. Sui palchi italiani arrivava nel 2002 anche Boston Marriage, con una contestata interpretazione di Veronica Pivetti.
Ho recentemente terminato di leggere gli incalzanti dialoghi tra i quattro protagonisti, sempre in coppia, de Il penitente (2016), tradotto e portato in scena ancora da Luca Barbareschi, di cui ora la Mostra presenta Fuori Concorso una trasposizione cinematografica.
Uno psicanalista viene messo alla berlina dalla pubblica opinione e dalla stampa per delitti commessi da un suo paziente. Moglie, avvocato e amico tentano di indurlo ad una difesa tattica, mentre il protagonista rivendica la propria integrità e autonomia, due valori umani che sembrano perdenti nella società attuale.
In realtà Il penitente è un giallo, ma la sorpresa arriva inattesa solo nella pagina finale. Le radici culturali di David Mamet trapelano ovunque nel testo, dal dibattito molto sofisticato con l’avvocato (lo era suo padre) all’interessante riflessione sull’operato di Nadab e Abiu, i sacerdoti, figli di Aronne, bruciati da Dio per aver acceso impropriamente un braciere in suo onore. E sulle motivazioni di fondo che informano questi temi solo Kierkegaard forse potrebbe discettarne congruamente. Ci limitiamo quindi a rilevare qui che Mamet è ebreo frequentante; ricordiamo di qualche anno fa la sua accusa di antisemitismo nei confronti degli scrittori inglesi e la sua raccolta di saggi sull’argomento, The Wicked Son del 2006.