Difficile sottrarsi alla necessità di testimoniare, di documentare, quando si ha a che fare con l’immagine fotografica. L’immagine fotografica, che riprende quindi la realtà fenomenica così come appare all’occhio umano, è l’antesignana del cinema, che senza di lei semplicemente non esisterebbe. Nelle arti immersive, i film girati a 180-360° recuperano spesso l’istanza testimoniale per portare il fruitore – qui di fatto spettatore di un film più che fruitore di un’esperienza interattiva – dentro un ambiente di cui si vuole appunto portare testimonianza, restituendone un’immagine fotografica (in movimento o meno) a tutto tondo, o quasi.
Dal 2017 almeno, anno in cui a Venezia vinse il premio per il miglior contenuto lineare per Bloodless, Gina Kim, sudcoreana di stanza a Los Angeles, restituisce la vita ai luoghi che l’hanno persa e che ora versano nel più totale e colpevole abbandono. Si tratta di luoghi in cui le donne hanno vissuto abusi, in particolare le donne coreane ad opera delle milizie americane durante la guerra di Corea.
Opera dopo opera, Kim ha trovato una cifra originale, insieme poetica e documentaria: i luoghi dedicati allo sfruttamento delle cosiddette comfort women vengono esplorati in inquadrature statiche che si animano sottilmente, diventando simili a tableux vivants in cui vibra fortissima una tensione etica. Vedere, essere testimoni di un fatto passato, dimenticato, attraversando le rovine dei luoghi che ne furono il teatro ha un impatto fortissimo sullo spettatore e regala al mezzo immersivo spessore e profondità morale.
Dopo il successivo, struggente, Tearless, quest’anno è la volta di Comfortless, dove il suffisso sottrattivo “-less” dice tutto sulla solitudine e sulla reificazione di esistenze sottratte, venute meno all’attenzione della Storia e ora rese finalmente incancellabili dallo sguardo di una cineasta immersiva di tutto rispetto.
COMFORTLESS
CONCORSO – Video 360
di Gina Kim
(Corea del Sud, USA, 15’)