Tra le tendenze – o le tensioni – che attraversano l’arte immersiva in questa fase di “maturazione” del linguaggio, tra le più fertili e promettenti c’è sicuramente l’irriducibile inclinazione a riflettere sullo spazio, sui confini della visione. Sul piano tecnico, le arti immersive tendono costitutivamente a superare la bidimensionalità, ma noi sappiamo che non è mai solo una questione di tecnica. Si tratta piuttosto di orizzonti semantici, campi di indagine espressiva, ambiti di costruzione dei significati.
Over the Rainbow, lo suggerisce il titolo, si misura con l’idea – e con l’immagine – dell’altrove. E siccome si tratta di un un film con riprese dal vero a 360° (effettivi 180°) è lecito domandarsi dove sia l’altrove, dove risieda il fuori campo se tutto lo spazio visibile e percorribile è potenzialmente campo. E qui vi voglio. Il regista, Craig Quintero, non nuovo a Venezia (il suo All that Remains è stato qui lo scorso anno) è di estrazione teatrale e di fatto il rapporto tra arte immersiva e teatro è uno dei temi più interessanti da esplorare oggi.
L’intenzione di Quintero è transcodificare l’esperienza di coinvolgimento sensoriale tipica delle performance teatrali live in opere immersive filmate a 360°: un proposito che però spinge il regista a scontrarsi con il concetto di limite, di spazio, di separazione. Ed è dalla separazione, dal concetto di frame che prende il via questo denso pezzo concettuale e simbolico che, come in una partita a scacchi giocata contro l’Intelligenza Artificiale, si conclude con un elogio dello smarrimento umano, della dispersione. Perdere e perdersi è umano. Ed è bellissimo.
OVER THE RAINBOW
Best of Immersive
di Craig Quintero (Taipei, 11’)