Arlecchino? Sta tutto in quel punto di domanda, ben visibile a fine parola. Una punteggiatura programmatica, perché Marco Baliani e Andrea Pennacchi ce lo vogliono dire subito, che quello che ci troveremo davanti non è propriamente Arlecchino. Non quello che ci si aspetta, perlomeno, e di certo non uno di quegli Arlecchini che nel tempo hanno fatto grande questa maschera della Commedia dell’Arte. Lui ci prova, eh. Cerca in tutti i modi di essere all’altezza del ruolo, ma non ce la fa: è goffo, sovrappeso, del tutto improbabile. Ed è in buona compagnia: gli altri attori, che, come lui, sono stati assoldati dall’imprenditore Pantalone con misere paghe, sono altrettanto debordanti, fuori orario, catastroficamente inadeguati.
Eppure. Eppure tutto questo deragliare, incespicare, parlare e muoversi convulsamente, fa accadere il miracolo e, in una forma non prevista, una nuova Commedia dell’Arte si dipana sotto gli occhi degli spettatori, ormai ammaliati da questa compagnia del disagio talmente sbagliata da fare il giro e diventare assolutamente perfetta nella sua inadeguatezza, capace di rico- struire la tradizione dopo averla intelligentemente tradita. Baliani costruisce questo spettacolo con un gruppo di attori – Andrea Pennacchi certamente, indiscusso mattatore, ma anche Marco Artusi, Federica Girardello, Miguel Gobbo Diaz, Margherita Mannino, Valerio Mazzucato e Anna Tringali – che ha scelto di seguirlo in questo delirio arlecchinesco e che, mettendo in campo la propria creatività, sono stati di stimolo per la stesura di un testo (ri) scritto ogni giorno, fino al risultato finale.
«Durante le prove – racconta Baliani – immaginavo di avere Carlo Goldoni seduto in terza fila, e dovevo dirgli di fare silenzio tanto si sganasciava dalle risate di fronte a questa sua opera divenuta così inverosimile da essere ancor più sua».