Il latte dei sogni

Ovvero la linfa vitale delle realtà possibili e immaginabili
di Francesco Santaniello

Poco più di un mese al finissage del Latte dei sogni di Cecilia Alemani. Una Biennale Arte, intensa, eterogenea, necessaria, stringente. Assolutamente da vedere entro il 27 novembre.

Potremmo pensare che in risposta alla vis destruens manifestata dai fautori della cancel culture Cecilia Alemani abbia proposto con Il latte dei sogni una pars construens rileggendo il passato recente della Storia dell’arte dando visibilità anche a chi non ne ha avuta affatto o a sufficienza. Nei racconti brevi della raccolta Il latte dei sogni, Leonora Carrington dà ai protagonisti delle storie la possibilità di ridefinire sé stessi e reinventare la vita e la realtà che li circonda attraverso il filtro della fantasia. Il latte dei sogni, pertanto, è un inno alla libertà dell’Essere ciò che si vuole e di interpretare il mondo come meglio si crede. Cecilia Alemani, partendo da questo concetto, con la mostra ufficiale della 59. Biennale Arte ha proposto una forte e intensa riflessione sulle identità dell’essere umano e sul ruolo che l’arte e più in generale la cultura possono e devono avere per trasmettere, con coraggio e spesso anticipando i tempi, messaggi di impegno civile. La società attuale ha dimostrato una nuova sensibilità e un’urgenza nell’affrontare tematiche per troppo tempo ritenute ‘scomode’, banalizzate, fatte oggetto di censura e repressioni. Il latte dei sogni in questi sette mesi è stato un nutrimento per la “fauna d’arte” internazionale: un alimento prezioso per stimolare le coscienze, per ravvivare le capacità immaginative di tutti coloro che si sono confrontati con le opere e i materiali esposti avendo avuto il coraggio di spogliarsi dalle convenzioni e dai preconcetti per riconsiderare l’esistenza con gli occhi e la fantasia dell’Altro/a. La curatrice, invitando e presentando soprattutto artiste ha cercato di colmare un gender gap millenario, ormai inconcepibile, (Lea Vergine con L’altra metà dell’avanguardia è il precedente più illustre) e lo ha fatto senza trascurare la compagine e la cultura queer. Una Biennale necessaria e stringente sul nostro presente, assolutamente da visitare entro il 27 novembre.

Ai Giardini

Ai Giardini nel Padiglione Centrale, Cecilia Alemani traccia un percorso dal registro più storicistico e retrospettivo, offrendoci la possibilità di vedere opere, oggetti e documenti che testimoniano il contributo imprescindibile dato dalle artiste e da autori/autrici anticonvenzionali alle avanguardie storiche e non solo. Radunando tali materiali e mettendoli in relazione fra loro, cosa mai avvenuta prima in maniera così sistematica, se ne è amplificato il valore culturale poiché si è dimostrato quanto quelle sperimentazioni e sensibilità abbiano influito sugli indirizzi di ricerca delle generazioni successive, fino all’oggi. La mostra caleidoscopica e multiforme obbliga il pubblico, che ormai ha un approccio più consapevole, a riconsiderare aspetti della Storia dell’arte, scritta quasi sempre da uomini, evidenziando soggetti e dinamiche vitali per la creatività. La mostra mette in luce così i fili che collegano le esperienze attuali e le sperimentazioni avanguardiste e anticonvenzionali del passato proponendo un esercizio mnemonico, non a caso il percorso espositivo inizia con l’elefantessa verde (Elefant/Elephant) di Katharina Fritsch: il pachiderma, che già nelle antiche iconologie era legato al concetto di memoria, con la sua pelle colorata, richiamo alla problematiche ambientaliste, dimostra che è possibile guardare il mondo con occhi diversi, poiché differente è il modo di interpretare e raccontare LE realtà che chiamiamo esistenza. Non può esserci una sola, esatta e dogmatica, interpretazione della vita. Addentrandosi nel ventre fecondo del Padiglione centrale si giunge a La culla della Strega dove, accanto al raro e folgorante filmato di Maya Deren, si trovavano le oniriche visioni di Leonor Fini e di Remedios Varo; le immaginifiche narrazioni di Leonora Carrington; le spregiudicate sperimentazioni delle futuriste capeggiate da Benedetta; la vitale, gioiosa danza-performance di Joséphine Baker. Lungi dal ritenere che la creatività femminile sia legata soltanto agli aspetti surreali, irrazionali, onirici, “stregoneschi” e medianici, alcune rappresentanti della Bauhaus, e soprattutto la capsula Tecnologie dell’incanto, con l’arte programmata e cinetica di Grazia Varisco, di Nanda Vigo e di Dadamaino, sono esempi di ricerche impostate sulla razionalità e le scienze esatte. Così è (se vi pare).

All’Arsenale

All’Arsenale, come ai Giardini, la curatrice ha sviluppato un discorso espositivo complesso e articolato in tre aree tematiche – La rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; Il rapporto individui-tecnologia; Il legame tra l’essere umano e la terra – intrecciando i fili delle eredità e continuità, ascendenze e derivazioni tra opere, poetiche, esperienze di vita. Alemani ci ha offerto una panoramica più ampia e attenta su talune situazioni dell’arte e della cultura del Novecento, dalle quali sono germogliate tante esperienze contemporanee. Maggiore spazio è stato dato alle artiste: per la prima volta, ribadiamolo, la loro presenza supera di gran lunga quella maschile. Tuttavia questa binaria distinzione di genere non ha senso, ora più che mai, poiché Il latte dei sogni ha nutrito e nutre senza distinzioni di sesso, latitudine o condizione sociale e chiunque può immaginare mondi diversi al di fuori del perimetro della realtà. Paradigmatica l’opera di apertura dell’itinerario espositivo alle Corderie, Brick House, scultura monumentale in bronzo di Simone Leigh (Leone d’oro e protagonista del Padiglione USA): il colossale busto raffigurante una donna dai tratti africani, con labbra carnose, capelli acconciati in treccioline fermate a una a una da conchiglie di ciprea. La figura non ha occhi, come a significare che il suo sguardo va oltre il visibile e il suo busto è modellato come una capanna o meglio una casa di mattoni dalle forme curvilinee. Siamo stati accolti da questa figura totemica, che evoca le culture ataviche non europee, l’archetipo del femminile, il desiderio di superare i limiti contingenti. Attinge a immagini ancestrali e simboli archetipici, anche Gabriel Chaile: nelle sue monumentali scultureforni di argilla recupera materiali e stilemi della cultura popolare di comunità ritenute marginali dalle élite globali (l’autore è argentino di nascita ma discende da una famiglia di retaggio spagnolo, afro-arabo e indigeno di Candelaria). All’Arsenale abbiamo visto tante interpretazioni e variazioni sul tema del corpo umano o parti di esso: i giovani mutanti che vagano nella foresta nel video di Egle Budvytyte˙ (Songs from the Compost: Mutating Bodies, Imploding Stars); la gioiosa e colorata Nana di Niki de Saint Phalle; ma anche l’inquietante (ed eccessivamente fallofobica) Können und Müssen di Raphaela Vogel. Una delle capsule temporali è stata qui riservata alla figura del cyborg, che ha affascinato diverse generazioni di artisti come il rapporto tra robot ed esseri umani. Alla fine del percorso una riflessione sulla società delle comunicazioni (sempre più veloci, ingombranti, incontrollabili, fagocitanti) di Barbara Kruger: uno spazio fatto di parole e segni di una comunicazione visiva, invasiva, che disorienta ma racconta la surreale epoca in cui viviamo.

 

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