Antonio Franchini, Federica Manzon, Michele Mari, Emanuele Trevi e Vanni Santoni concorrono allo storico premio letterario che verrà assegnato alla Fenice di Venezia il 21 settembre.
La giuria dei letterati presieduta per il secondo anno da Walter Veltroni, composta da Pierluigi Battista, Alessandro Beretta, Federico Bertoni, Daniela Brogi, Silvia Calandrelli, Edoardo Camurri, Chiara Fenoglio, Daria Galateria, Lorenzo Tomasin, Roberto Vecchioni ed Emanuele Zinato, ha scelto cinque romanzi di narrativa italiana tra quelli pubblicati nell’ultimo anno, a cui verrà assegnato il 62. Premio Campiello.
Entrano in finale Antonio Franchini (Il fuoco che ti porti dentro – Marsilio), Federica Manzon (Alma – Giangiacomo Feltrinelli), Michele Mari (Locus Desperatus – Giulio Einaudi editore), Emanuele Trevi (La Casa del Mago – Ponte alle Grazie) e Vanni Santoni (Dilaga ovunque – Laterza).
Il Premio Campiello – Opera Prima 2024 è stato attribuito a La casa delle orfane bianche (Laurana Editore) di Fiammetta Palpati.
Sospettosa, negativa, paranoica, ossessiva, ma anche divertente, eccentrica e anticonformista. Angela Izzo ha avuto una vita complicata ed è difficile starle accanto perché la furia che ha dentro non si ferma nemmeno di fronte ai figli. Antonio Franchini, in questa biografia appassionata e cinica, racconta sua madre con un’onestà a tratti spietata, facendola a pezzi senza risparmiarle nulla, nemmeno questo: «Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza». Ma Angela, trasformandosi in un personaggio, arriva a rappresentare anche una città, Napoli, e un’intera mentalità, quella meridionale; che forse in realtà è anche nazionale. Può essere questo il fuoco che Angela si porta dentro? L’atavico senso di inferiorità di una donna del Sud che si trasferisce nel tanto odiato Nord? Oppure è stata la guerra vista da bambina? O forse la ‘colpa’ è del padre, morto quando lei era ancora troppo piccola?
«È facile inventare leggende attorno a chi omette e omette. Sono le persone di cui non sappiamo nulla che suscitano in noi una curiosità, una fantasia. E quindi il nostro innamoramento». Il nuovo romanzo di Federica Manzon parte da qui, dal rapporto tra un padre che spariva e riappariva senza preavviso e una figlia, Alma, di cui l’autrice racconta la storia in terza persona, da quando da bambina viveva a Trieste con la famiglia a quando torna da adulta nella sua città per capire molte cose e chiudere dei cerchi. Il padre incarna prima di tutto una geografia. Tutto nei suoi spostamenti di qua e di là del confine con l’ex Jugoslavia è misterioso e Alma non sa nulla del suo lavoro, se non che forse consisteva nel trascrivere, correggendoli, i discorsi del Maresciallo Tito. Ma nonostante i misteri e le omissioni, una cosa il padre è riuscito a trasmettere alla figlia: un’idea di libertà che unisce Alma a Trieste e a quel confine che è proprio lì, a pochi chilometri da lei.
Tutte le cose amate hanno un’anima, e quindi una volontà. Quando il protagonista di questa storia si vede costretto a traslocare dalla sua casa per lasciare il posto ad un nuovo inquilino, tutti i libri, le stampe, gli oggetti e i ricordi d’infanzia così a lungo custoditi dovranno a loro volta scegliere se fuggire insieme a lui oppure passare al nuovo proprietario. L’autore ci consegna una storia carica di mistero, struggimento e ossessione per i feticci accumulati nel corso di un’esistenza, una storia tormentata e divertente sul senso che diamo agli oggetti, sulla loro carica affettiva e sulla loro capacità di racchiudere frammenti della nostra stessa identità dai quali risulta doloroso e devastante separarsi: «Ridotto così, ero re: delle mie cose, delle mie collezioni, dunque di me, che in quelle collezioni avevo sistematicamente trasferito ogni mia più intima particola».
“Lo sai com’è fatto” è la frase che la madre ripete costantemente al figlio riferendosi al padre Mario Trevi, celebre e risevatissimo psicanalista junghiano. Con il suo nuovo romanzo Trevi ci regala un ritratto intimo e personale di un padre spesso distante e distratto, completamente assorbito dalla sua professione di “guaritore di anime”, che attraverso gli occhi di un bambino si trasforma nel Mago. Alla sua morte, l’autore ormai adulto si muove nella casa-studio del Mago assorbendo l’aura che ancora aleggia in quel luogo, per decidere infine di farne la sua nuova casa.
Siamo a Barcellona, è notte e stiamo per entrare in un deposito di treni con una bomboletta spray e il cappuccio della felpa tirato su. Ciò che secondo l’autore dilaga ovunque è la street art, un fenomeno di cui si sono perse le origini e che l’autore prova a descrivere attraverso una storia raccontata in prima persona da una graffitara. Il punto di vista non è dunque quello diurno di chi scopre un nuovo murale dietro l’angolo di casa, né di chi è incaricato di far ripulire un vagone “imbrattato”. Il monologo serrato di questa outsider restituisce il lato notturno, attivo e motivazionale di un’espressione artistica che è anche appropriazione urbana e atto di autodeterminazione. «[…]il gusto di infrangere limiti e tabù, certo, e quello di rispondere all’attacco segnico, alle squadre di esperti di marketing che ogni giorno attaccano i cervelli dai cartelloni e dalle vetrine, ma anche e soprattutto quello di sabotare l’ordine dei segni della città, diventare col tuo segno la città stessa».