I tormenti di Daniel

Dal 13 febbraio al cinema il Burroughs di Guadagnino
di Michele Gottardi

Daniel Craig in un’interpretazione memorabile, tra le strade di Città del Messico alla ricerca di sè stesso.

Non è stato facile per Daniel Craig, ultimo esempio del machismo bondiano (quello di «My name is Bond, James Bond») declinarsi in attore feticcio di Luca Guadagnino nella trasposizione per il grande schermo del lisergico Queer di William S. Burroughs, scritto nel 1952 ma pubblicato solo nel 1985 perché considerato scandaloso per il racconto di una normale omosessualità, nonostante la fama del suo autore, considerato il padre della beat generation. Un romanzo breve, autobiografico, che ricostruisce in parte l’amicizia tra Burroughs e un militare della U.S. Navy, Adelbert Lewis Marker. Ma sicuramente il personaggio che esce dalla recitazione di Craig è tanto genuino quanto anomalo nella sua galleria di interpretazioni e il suo valore va ben oltre l’economia generale del film. È il 1950. William Lee (Daniel Craig) è un americano sulla soglia dei cinquanta, espatriato a Città del Messico. Passa le sue giornate quasi sempre da solo, poche relazioni con gli altri membri della piccola comunità americana. L’incontro con Eugene Allerton (Drew Starkey), un giovane studente appena arrivato in città, gli mostra per la prima volta la possibilità di stabilire finalmente una connessione intima con qualcuno, andando oltre una tristezza esistenziale che lo accompagnerà comunque a lungo.

Quello che diventa definitivo nel percorso di Lee è il viaggio nella giungla, allucinato e allucinogeno, alla ricerca di un motivo di vita e di una spinta a ritrovarsi per sempre. Ma alla fine la condizione esistenziale, la sua autobiografica alterità, resterà immutata a marcare una vita segnata come quella di un eroe romantico ottocentesco: pochi giorni prima di morire Burroughs scriveva sul suo diario: «Come può un uomo che vede e sente non essere triste?». Detto di Craig, diciamo del film, che Guadagnino ha girato a Cinecittà ricostruendo negli studi di via Tuscolana la Città del Messico degli anni Cinquanta. Per rendere l’itinerario sentimental-amoroso di Lee&Allerton il regista di Chiamami col tuo nome e Challengers mescola letteratura e musica contemporanea, beat-generation e Nirvana, horror e fantascienza, riti sciamanici e radici allucinogene, come l’ayahuasca che dà corpo e rappresentazione a desideri reconditi e più evidenti, dalla solitudine alla carnalità. Ma, come altre volte in Guadagnino, la bravura narrativa ed estetica, ricca di citazioni cinefile (Kubrick su tutti) e non, rischia di diventare, almeno a tratti, un algido esercizio di stile, non trasformando le ossessioni di Burroughs e del suo protagonista in autentiche passioni.

Dalla pagina allo schermo: Queer di William S. Burrough secondo Guadagnino

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