Al Sexto ‘Nplugged il fascino lunare di Cat Power per uno dei live più attesi di un’estate a forti tinte musicali.
«Con lo studio incessante, Lei riceverà lo spirito di Mozart dalle mani di Mozart». Così scriveva il conte Waldstein ad un giovane Beethoven appena arrivato a Vienna da Bonn, sua città natale. Non era solo una grande intuizione musicale: era anche l’atto costitutivo della storiografia musicale classica, basata sullo studio delle discendenze ereditarie che un grande artista trasmette a quello successivo, che ne risulta come una specie di conseguenza oggettivata, quasi necessaria. Può questo metodo venire applicato alla musica rock, molto più volatile e tumultuosa di quella classica? Se sì, allora potremmo dire che l’artista icona della musica indie, la sfuggente ed ombrosa Cat Power, è la somma dell’unione estetico-musicale di Patti Smith e di Lydia Lunch. Vale a dire la fiera consapevolezza del rock classico come forma d’arte totale, alla pari di poesia e letteratura, e la celebrazione lunare della parte oscura dell’anima, delle devastanti irrequietezze che la attraversano. Perché Cat Power è il luogo dei contrasti esasperanti, delle opposizioni che conflagrano contemporaneamente a produrre un’instabilità identitaria che si riproduce continuamente nella sua musica.
Conosciamo gli strumenti e il cantato, ma cos’è la musica? Qualcosa di poetico, bizzarro, naturale, spontaneo. Più di qualsiasi altra cosa, è un collegamento tra le persone, una rete di suoni che favorisce tutto questo
I suoi undici dischi, dal 1995 ad oggi, rappresentano un opus di estrema omogeneità che definisce un percorso artistico in cui è arduo trovare cambiamenti di rotta definitivi e rinneganti le esperienze precedenti. Certo i primi due dischi del 1995 e 1996, registrati in un’unica sessione in uno scantinato di New York, definiscono un suono scabro, grezzo e monocorde, mentre il terzo, What Would the Community Think, del 1996, si apre al fascino lunare di Cat Power in cui la matrice punk degli inizi trova un equilibrio con la vocazione folk-country della sua educazione musicale da American gothic (lei è di Atlanta, Georgia, e le radici sudiste della sua musica sono assolutamente rintracciabili in quella voce roca, ovviamente sensuale, che si posa pigramente sulle parole delle liriche riempiendole di vibrazioni). E poi ci sono tre dischi di covers: lungi dall’essere una forma di pigrizia creativa, il fatto che quasi dall’inizio della sua carriera ogni suo disco di canzoni originali venga seguito da un disco di covers testimonia quella sua ricerca di spersonalizzazione, di instabilità, di svaporamento del sé. Ce la ricordiamo anni fa in un concerto a Roma, esitante ad attaccare i pezzi, poi a sussurrare frasi incomprensibili tra una canzone e l’altra, ad esprimere con il suo body language un reale stato di malessere, fino ad interrompere per mezz’ora il concerto perché, a suo dire, gli altoparlanti erano stati posizionati malamente. E di concerti del genere, in cui lei ha messo a nudo la fragilità costitutiva della sua personalità, se ne contano a decine.
Lontana dalla solarità apollinea di uno Springsteen o di Patti Smith, Cat Power ci ricorda un altro artista che fece della fragilità la sua cifra essenziale: Alex Chilton, il leader dei Big Star. Entrambi eroi di un universo in penombra, dagli indefinibili confini, in cui la sincerità lancinante dell’espressione artistica si fonde con un “male di vivere” che sa regalarci l’estasi della bellezza torturata.