Alle Gallerie dell’Accademia la mostra “Willem de Kooning e l’Italia” dà evidenza soprattutto all’impatto che i soggiorni in Italia ebbero sull’arte di uno degli artisti più influenti del XX secolo.
Di fronte alle grandi tele di Willem de Kooning (1904–1997) si viene totalmente travolti dalle sue pennellate cariche di una forza che unisce gesto e colore, emozione e rigore, astrazione e figurazione; a fatica racchiuse all’interno del quadro, sembra quasi ne vogliano prepotentemente uscire, senza riuscirci. Indiscusso e geniale protagonista dell’arte americana del secolo scorso, con l’Espressionismo astratto, di cui fu uno dei più rappresentativi esponenti, ha portato oltreoceano un approccio alla pittura intriso in quelle sue radici che affondavano nel Rinascimento del Vecchio Continente. Trasferitosi a New York dall’Olanda nel 1926, come scrive Gary Garrels curatore insieme a Mario Codognato dell’interessante, qualitativamente preziosa mostra, la più ricca mai presentata in Italia, allestita al pianterreno delle Gallerie dell’Accademia e corredata da un ricco catalogo Marsilio, «sebbene nutrito dalla cultura americana, non ha mai voltato le spalle alle tradizioni secolari dell’arte europea in cui era profondamente radicato». Una selezione mirata di 75 opere – provenienti dal Guggenheim di Bilbao, dal Moma e Whitney di New York, dall’Hirshorn di Washington, dal Thyssen di Madrid, dal Pompidou di Parigi, dallo Stedelijk di Amsterdam, oltre ai generosi prestiti di collezionisti privati e della stessa Fondazione de Kooning – consente di ripercorrere i due periodi fondamentali trascorsi dall’artista in Italia, che lasciarono un’impronta decisiva nell’evoluzione del suo linguaggio.
Incuriosito già negli anni ‘40 dagli affreschi pompeiani scoperti al Metropolitan insieme all’amico Arshile Gorky, con la sua prima visita in Italia nel 1959, prima a Venezia e poi a Roma, e di nuovo nel 1969 quando vi si fermò per quattro mesi, fu inevitabilmente attratto dalle atmosfere lagunari, dai riflessi del sole nei canali o in bacino di San Marco, dal verde del parco di Villa Borghese; si innamorò della carnalità del colore visitando la Cappella Sistina, frequentò gli studi di Afro e Scialoja, che stavano facendo conoscere l’arte italiana nella Grande Mela creando un ponte tra i due continenti. E proprio nella penombra dell’atelier di Afro in via Margutta de Kooning realizzò su fogli Fabriano una cinquantina di bianchi e neri, alcuni dipinti su entrambi i lati, altri a collages, che in apertura del percorso espositivo svelano come, attraverso l’uso delle larghe campiture ottenute con smalti neri mescolati a pomice macinata per smorzarne la lucentezza, l’artista riusciva a ricreare la stessa profondità raggiunta con le masse cromatiche stese a pennello. A confronto A Tree in Naples in una esplosione di turchesi, Door to the River dai delicati impasti nelle tinte pastello, Villa Borghese in un intersecarsi di pennellate blu e verdi, gialle e rosa, che pur nell’astrazione espressionistica lasciano intuire tracce formali appena accennate, frutto delle memorie visive che il pittore sfogò sulle tele dopo il soggiorno romano al suo rientro a New York. Al tripudio di colore delle grandi opere si alternano in mostra, inattesi, una serie di bronzetti nati dall’incontro casuale a Roma con Herzl Emanuel un suo compagno del New York Federal Art Project degli anni ‘30, che a Trastevere aveva avviato una fonderia. De Kooning, circondato dall’opulenza romana delle statue barocche, attratto dalla tridimensionalità, ma soprattutto dalla possibilità di sperimentarla con la creta, trasferì grazie alla duttilità del materiale emozioni intime laddove la mano si sostituiva quale medium al pennello.
Una sorta di trasposizione tattile che lo riportava all’insegnamento di Tiziano che nell’ultima fase della sua vita aveva fatto sgorgare le emozioni su tela direttamente dal proprio corpo senza l’uso del pennello; così come nella Pietà del cadorino al piano superiore delle Gallerie i contorni si sfaldano in un magma materico, nelle sculturine di de Kooning la corporeità antropomorfa sembra sciogliersi nello spazio. Ne realizzò tredici dai 18 ai 40 centimetri, poi fuse in bronzo da Emanuel. Rispetto al dripping pollockiano, alla rottura che i suoi contemporanei espressionisti astratti fecero con la tradizione in una sorta di tabula rasa col passato, il legame che de Kooning sentiva con gli antichi maestri era apertamente ammesso: «Rinascimento, Rubens, i veneziani e le loro pennellate, nessuno poteva farne di migliori». In questo lo considerarono un “traditore”, un punto di vista per gli altri inconcepibile. «Sono diverso da loro, affermò lui stesso, perché sono interessato a tutta l’arte. Mi sento più vicino alla tradizione». La sua prima partecipazione alla 25. Biennale di Venezia risale al 1950 col grande dipinto Excavation costruito su linee spezzate per piani paralleli alla maniera cubista, ma vagamente biomorfiche nello stemperarsi arrotondandosi nello spazio del quadro. Acquistato due anni dopo, è oggi uno dei capolavori dello straordinario Art Institute di Chicago.
Nella serie delle Women esposte nel Padiglione USA alla 27. Biennale del 1954 sembra attuare un omaggio alla carnalità del ritratto muliebre veneziano che riesce a reinterpretare secondo la sua sensibilità, grandiosa, del tutto “americana”, spaziando da Tiziano e Tintoretto, per arrivare a Picasso, Cezanne, Giacometti fino a quei Cobra vicino alle sue origini olandesi. Come seduto nella carrozza di un treno, percorre un binario della storia dell’arte, la osserva dal di dentro, ne fa parte, arricchendola col proprio contributo. Fu presente di nuovo alla 28. Biennale del 1956 in una collettiva nel Padiglione USA. Finché terzo e ultimo viaggio in Italia nel 1972; vacanza prolungata con tappa obbligata e visita di persona alla 36. Biennale, all’epoca improntata su corpo, performance, video e fotografia. Quella fisicità fu essenziale per de Kooning: la mano che spaziava sulla tela, il nudo e la carne non descritti ma allusi dalla forme opulente e barocche gli derivarono da quel suo amore per il passato attualizzato nel presente. Specchio di quello che lo storico dell’arte David Rosand definì “l’eloquenza del pennello”. Ulteriore, indiretto e non cercato omaggio a Venezia sembrerebbe l’Untitled del 1982 in chiusura, dove una danza di linee e di colori, quasi fossero stemperati nell’acqua e galleggianti nel vuoto bianco della tela, danno vita a forme in movimento, riportandoci inconsapevoli con la memoria alle rarefatte e minimali figure nello spazio di Virgilio Guidi, romano di nascita, veneziano dadozione, maestro di figurazione e astrazione in una combinazione perfetta di atmosfere di luce.