Dal 28 marzo al 6 aprile Anna Bolena torna alla Fenice, dopo quasi due secoli di assenza dalla programmazione.
Centosessantotto anni ci separano dall’ultima rappresentazione dell’Anna Bolena di Gaetano Donizetti alla Fenice, andata in scena nell’agosto 1857 con Ignazio Marini a vestire i panni di Enrico VIII. L’opera, difatti, dopo un debutto segnato dallo straordinario successo al Teatro Carcano di Milano, ove inaugurò la Stagione di Carnevale 1830-31, e un quarantennio di viva fortuna, vide un declino della propria popolarità che la portò a non essere rappresentata per tutta la prima metà del XX secolo. Se si eccettuano due sporadiche rappresentazioni nel dopoguerra (1947 al Gran Teatre del Liceu, con interpreti del calibro di Cesare Siepi e Giulietta Simionato; 1956 al Teatro Donizetti di Bergamo), la fortuna moderna dell’opera è tuttavia dovuta all’esecuzione del 1957 alla Scala di Milano (dove mancava da ottant’anni), diretta da Gianandrea Gavezzeni, che vide accanto alla Simionato Nicola Rossi-Lemeni e soprattutto Maria Callas nei panni della sfortunata moglie del sovrano inglese. Sebbene rappresentata in quell’occasione con non pochi tagli, essa ritornò lentamente nei palinsesti dei teatri italiani, e oggi torna a Venezia tra marzo e aprile, affidata alle cure registiche di Pier Luigi Pizzi e con la direzione di Renato Balsadonna.
Tra le voci, si distingueranno Lidia Fridman, al debutto nel ruolo della protagonista, e Alex Esposito in quello di Enrico VIII. Il dramma, su libretto di Felice Romani ispirato all’Anna Bolena del Pepoli e soprattutto all’Henri VIII di Marie-Joseph Chénier (ch’egli conosceva nella traduzione del Pindemonte), mette in scena le ultime tragiche ore della seconda moglie di Enrico VIII, che alfine muore sfinita nelle prigioni della Torre di Londra, non prima di aver perdonato il crudele marito che proprio in quegl’istanti convola a nozze con Giovanna di Seymour, che di Anna era stata ancella. A dispetto della sua altalenante fortuna, l’opera segna una tappa notevole della produzione seria del Donizetti, in cui il bergamasco mostra per la prima volta le capacità analitiche della psicologia della protagonista che contraddistinguono poi la Lucia, pur essendo stata scritta in soli trenta giorni, praticamente di getto, anche grazie alla rivalità di Donizetti con Vincenzo Bellini, a cui era stata contemporaneamente commissionata un’opera dallo stesso direttore del Teatro Carcano. Nondimeno, essa è stata a buon diritto considerata uno degli apici dell’opera romantica, e non a caso valse al Donizetti, all’epoca poco più che trentenne, l’appellativo di “maestro” da parte dell’allora celeberrimo compositore tedesco Simone Mayr.