Lo scorso 18 novembre, all’Osteria al Ponte di San Donà, un live di Pierpaolo Capovilla ha ribadito l’urgenza necessaria del suo rock di linguaggio.
Non si può imbrigliare Pierpaolo Capovilla in una definizione. Il suo percorso accidentato, orgogliosamente zoppicante, è quello della musica indipendente italiana. Che se non approda a qualcos’altro, diventa manierismo piccolo borghese. Che se non osa, spingendo l’acceleratore su ciò che sente più urgente e vivo, diventa musica da canticchiare sotto la doccia. Questo fa Capovilla, da sempre. Spinge dove sa di non potersi accomodare, dove sente ancora la tensione. Per recensire un progetto come Triste solitario y final, in duo con Nicola Manzan e da marzo in tour in Italia – il 18 novembre passato in live all’ottima Osteria Al Ponte di San Donà di Piave –, non possono bastare le coordinate musicali, né il fuorviante metro del mercato. Per forza di cose si deve attingere al letterario, al teatrale e al politico. Ma è da sempre così, per Pierpaolo Capovilla. Una performance live con lui da sempre non chiede di piacere, di intrattenere, nemmeno di colpire. Vuole dire. È enunciativa, drammaticamente, urgentemente. Come il rock e la poesia sono sempre stati. Come il teatro e la politica – e il teatro della politica. Come il melodramma, al centro la parola, il gesto, l’umano sentire e l’umano raccontare.
Già i riff dei One Dimensional Man suonavano così, e altrettanto le declamazioni del Teatro degli Orrori, scagliate contro il muro del suono e muri di suoni. Capovilla ha semplicemente proseguito il proprio percorso, cambiando strumenti, introiettando le dissonanze del suo rock, inghiottendo la musica per restituirla in parola, in gestualità verbale, in posizione intellettuale. La zona d’ombra in cui ci cala anche questo suo ultimo progetto, il cui titolo è un omaggio al beffardo romanzo di Osvaldo Soriano, elegia disperatamente slapstick del sogno americano, è lo spazio nero da cui nasce ogni moto di sdegno, ogni riposizionamento morale e politico rispetto al tradimento del sogno di giustizia promesso dalla democrazia. La voce di Pierpaolo resta sola. La sua vis declamatoria, accusatoria, un proferimento inaudito. Perché i destinatari siamo noi, che ci ostiniamo a non ascoltare e a non sentire. A non voler abitare il vuoto originario, muto, profondo e nero, da cui sgorga il linguaggio umano.