La Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro accoglie in una grande personale l’opera immensa e magnetica del surrealista cileno Roberto Matta.
«Io penso che ogni artista è sulla terra per creare un mito, o, piuttosto, per ricreare in maniera originale un mito primordiale, e che tutta la sua vita, tutta la sua ricerca debba essere vista come un’Odissea». È proprio un’Odissea quella che si rivela varcando la soglia del secondo piano di Ca’ Pesaro, fattosi cosmo dell’opera immensa e magnetica del surrealista cileno Roberto Matta (1911–2002), instancabile esploratore dell’umano e sublime architetto di realtà immaginate, la cui eredità, spesso trascurata, ancora merita la nostra attenzione.
Di fatto, si contano su una mano le grandi esposizioni europee dedicategli negli ultimi cinquant’anni, malgrado l’influenza cruciale esercitata non solo sui pittori a lui coevi – tra tutti, i surrealisti americani –, ma anche sulle generazioni future che, dal videogioco al cinema, ancora attingono alle atmosfere allucinate e fantascientifiche condensate nelle sue tele.
Ampliando dunque l’ambizioso programma di approfondimento e riscoperta degli autori del Novecento, la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Venezia offre al pubblico un inedito viaggio intergalattico nella poetica di questo artista nomade e visionario, partendo proprio da un’opera di proprietà del museo, ossia Alba sulla terra (1953), primo “Matta” ad entrare ufficialmente in una collezione pubblica italiana.
Il percorso espositivo, tracciato dai curatori Norman Rosenthal, Dawn Ades e Elisabetta Barisoni, inizia in medias res, catapultando lo spettatore nelle fantasie robotiche e siderali di Coïgitum (1972), un colosso di ben dieci metri in cui l’immaginario surrealista si piega allo sfondamento dello spazio generando eserciti di spore metalliche, che paiono marciare fuori dalla tela. Da qui, un anello tematico e cronologico abbraccia l’intera produzione pittorica e scultorea di Matta, dagli anni giovanili a Parigi sino al prolifico incontro con l’architettura di Le Corbusier, che segnò per sempre il suo approccio spaziale. Cruciale fu poi l’ingresso al circolo di André Breton, dove iniziò ad esplorare l’automatismo psichico reinterpretando la tradizione surrealista nelle sue celebri figure aperte in cui, progressivamente, riversò ferventi ideologie socialiste.
Sin dagli anni ‘40, Matta si avvicinò infatti ai temi dell’attualità politica, rappresentando dapprima la condizione di solitudine dell’uomo nella società di massa, per approdare poi a una seria e convinta militanza di matrice comunista, affievolitasi – senza mai sopirsi del tutto – solo negli anni ‘80. D’altronde, sarà lo stesso Duchamp a definirlo «il pittore più profondo della sua generazione», non solo per l’accesa coscienza politica, ma anche per le acute riflessioni sul ruolo rivelatore dell’artista nella società contemporanea: «Io non sono un pittore», disse più volte, «io sono uno che dimostra», che fa vedere. E di fatto, come un moderno Ulisse, Matta esplora le profondità dell’inconscio, riesumando i segni visivi delle angosce umane per condensarli in una personale mitologia la cui universalità resta, ancora oggi, terribilmente attuale.