Oltre il visibile

Incontro con Shiro Takatani, fondatore di Dumb Type
di Loris Casadei

Shiro Takatani, cofondatore del rinomato collettivo artistico giapponese Dumb Type, è autore di Tangent, spettacolo sulle zone liminari che sfida i limiti del percettibile, tra i più attesi di questa edizione 18. edizione di Biennale Danza.

Nel 1984 a Kyoto un gruppo di studenti della City University of Arts decise di scendere in campo per sperimentare nuove forme artistiche: video, pittura, scultura, musica, architettura, danza e recitazione, ma in assenza di parlato. Scrisse uno dei fondatori Teiji Furuhashi: «Avevamo molti dubbi sulla parola come principale forma di comunicazione umana, volevamo esplorare livelli di comunicazione più profondi». Negli anni ‘80 il Giappone stava diventando una delle maggiori potenze mondiali: secondo Paese per reddito pro capite, implementazione di alta tecnologia che ha portato a invenzioni come i treni ‘proiettili’ Shinkansen o gli studi sul treno a levitazione magnetica Maglev, il primato nel settore automobilistico, il tutto però in un contesto a forte rischio di totale apatia politica. Il gruppo adottò così il nome Dumb Type, proprio per rimarcare la superficialità della società giapponese nei confronti dei fattori umani e sociali.
Tra i fondatori anche Shiro Takatani, che presenta per Biennale Danza Tangent al Teatro Malibran il 25 e 26 luglio. «Spettacolo sulle zone liminari che sfida i limiti del percettibile», dove l’accento è posto non sull’immediatamente visibile, ma sull’intero paesaggio/spettro di stimoli visivi e sonori che riempie spesso in modo inconsapevole la nostra percezione.
Una raffinata studiosa della luce in scena, Cristina Grazioli, richiama Kandinskij e il suo Lo spirituale nell’arte, che contiene la riflessione sulla distinzione nell’esperienza del colore tra l’associazione visiva e l’effetto spirituale, dove la percezione cromatica risuona nell’anima. Il messaggio di Takatani è: non solo ciò che è visibile è presente. Ma con l’onesta consapevolezza di non sapere se «la performance è un vero e proprio sostituto della comunicazione reciproca». Di estremo interesse il film del regista Giulio Boato Shiro Takatani. Between nature and technology (2019) che ne immortala l’intero percorso artistico. Tra le sue recenti presenze a Venezia, ricordiamo quella alla 59. Biennale Arte nel 2022, dove Dumb Type ha rappresentato il Giappone con un’omonima installazione multimediale immersiva.

Il suo lavoro Time mi ha subito richiamato alla mente in modo netto il waka di Dōgen intitolato Il rumore delle gocce di pioggia di Jingping, anche se lei in diverse interviste continua a prendere delle decise distanze dalla cultura tradizionale giapponese. Che ruolo ha giocato tutto questo nella sua formazione?
Da bambino mi piacevano le scienze. La poesia del monaco buddista Dōgen, Kyōsei utekisei (“la voce delle gocce di pioggia”) che ha citato, mi sembra una spiegazione della meccanica quantistica.
Insegna il pensiero Zen in questo modo: il me che ascolta e le gocce di pioggia che vengono ascoltate non sono due cose separate. Poiché io ascolto, le gocce di pioggia emettono un suono, e poiché le gocce di pioggia emettono un suono, io ascolto. Possiamo udire solo ciò che vogliamo udire. Allo stesso modo, vediamo solo ciò che vogliamo vedere. Da ragazzo non capivo il vero significato della cultura e della filosofia giapponese…

Tangent, Dumb Type, ph. Yoshikazu Inoue, courtesy La Biennale di Venezia

Walter Benjamin sosteneva che con la produzione iconica illimitata e il consumo di massa, il concetto di aura, la sensazione mistico-religiosa di un’opera d’arte, si perdeva irrimediabilmente. Eppure i suoi lavori sembrano volerla ricreare. Quale è il suo punto di vista su questo tema?
Non sto cercando di ricreare un “concetto di aura” o una “sensazione mistico-religiosa di un’opera d’arte”, ma qualcosa che vada oltre. Invero noi consumiamo molte più immagini di quanto Benjamin immaginava, e ognuno di noi ne porta con sé tante nel proprio smartphone che non riusciamo nemmeno a vederle tutte.

Non deve essere un’esperienza virtuale bensì reale, questo è un principio fondamentale nel mio lavoro

Le sue performance sembrano nascere da esplorazioni installative per poi divenire rappresentazioni teatrali attraverso l’uso di media diversi, barre luminose, luci stroboscopiche, colori, testo, suono, immagini in movimento, l’architettura in scena… In che modo nasce una sua creazione? Com’è nata l’idea di Tangent?
All’inizio ho cominciato a lavorare con la mia squadra di creativi a partire da un’idea del nostro produttore, una visione molto aperta e comprensiva. Ci disse che potevamo anche non creare un vero e proprio spettacolo, purché il risultato derivasse in qualche modo dal fare teatro. Nonostante all’epoca non avessi ben chiaro come si creasse una “performance”, ho accettato la sua offerta. Da allora per me il teatro è sempre uno studio sperimentale per il processo di creazione.
Sul palcoscenico di Tangent le luci si muovono come se cercassero di copiare i movimenti del sole e gli altoparlanti sferici ruotano automaticamente. Quest’idea l’ho avuta fin dall’inizio: sia le luci che gli altoparlanti dovevano muoversi. Non deve essere un’esperienza virtuale bensì reale, questo è un principio fondamentale nel mio lavoro.

Tangent, Dumb Type, ph. Yoshikazu Inoue, courtesy La Biennale di Venezia

Oggi si parla molto, anche nell’arte, di intelligenza artificiale. Ne immagina un futuro utilizzo?
Per me l’intelligenza artificiale è ancora solo uno strumento per organizzare le informazioni. L’uso degli strumenti è importantissimo nel mio lavoro: sedie, scale, specchi… A differenza di questi, però, l’intelligenza artificiale è una scatola nera, almeno per me. Permette di digerire grandi quantità di dati e ottenere risultati, ma io ancora non la so usare.

Biennale Danza 2024 – We Humans

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