Oltre la pietra

Giorgio Andreotta Calò e le stratificazioni del tempo
di Adele Spinelli

L’esposizione “Scultura lingua morta” a Ca’ Pesaro innesca un muto dialogo tra l’opera ventennale dell’artista veneziano portavoce del contemporaneo e la storia della Laguna.

«Lingua aulica e sacerdotale, simbolica scrittura incapace di svolgersi nei moti quotidiani. La scultura resta quello che è: lingua morta che non ha volgare, né potrà mai essere parola spontanea fra gli uomini». Così esordisce Arturo Martini, tra gli scultori più noti del Novecento italiano, nella sua opera intitolata Scultura lingua morta, pubblicata a Venezia, in sole cinquanta copie, nel 1945. Affranto ed inerte dinanzi agli orrori di un’Europa mutilata, con il lucido pamphlet l’autore depone le armi in segno di resa, decretando la morte di un’arte soffocata dal peso di storia e materia e pertanto non più in grado di rispondere alle istanze del presente. Quasi un secolo dopo, quando sul sepolcro della scultura edere e muschi già dovrebbero proliferare, l’accorato epitaffio torna a scuotere il panorama artistico facendosi quesito fondante di una mostra che, seppur intima e raccolta, condensa in sé l’anima di Ca’ Pesaro, da sempre vivace fucina di modernità. Curata da Elisabetta Barison e ospitata nelle sale storiche della Galleria d’Arte Moderna – dove peraltro fu attivo lo stesso Martini –, l’esposizione Scultura lingua morta innesca un muto dialogo tra l’opera ventennale di Giorgio Andreotta Calò, artista veneziano portavoce del contemporaneo, l’iconica plastica di Arturo Martini e la storia della laguna. Centrale, nel percorso artistico di Calò, è di fatto il legame con Venezia e il perpetuo mutare del suo paesaggio urbano, rappresentato in mostra da opere come Clessidre, null’altro che tronchi corrosi dal susseguirsi delle maree, o gli stessi Carotaggi del palazzo, segni tangibili dello scorrere del tempo, di sedimentazioni e continue metamorfosi. A sorprendere maggiormente è però il raffronto tra le due meduse, l’una, di Martini, immobile e gonfia di sgomento, l’altra, animata dal tocco delle onde che ancora paiono lambirne la superficie: una dimostrazione che la vita della scultura non è affatto finita, purché essa accetti di trasformarsi, di abbandonare i rigidi confini della forma per divenire processo, relazione e memoria.

Scultura lingua morta

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