Orizzonti contemporanei

L’Antropocene protagonista in Edward Burtynsky
di Luisa Turchi

In corso all’M9 – Museo del Novecento di Mestre, “Extraction / Abstraction” è una mostra antologica che celebra gli sguardi sul nostro mondo – e anche sul nostro Paese – del fotografo e regista canadese.

Fotografare tra cielo e terra, per rivelare l’interfaccia Uomo Natura su questo Pianeta, nelle sue radicali trasformazioni che portano a raffrontarci sempre più con le conseguenze del nostro operato, ovvero con la gestione delle scorie e rifiuti prodotti, nonché con i cambiamenti climatici derivati dall’inquinamento per l’intensificarsi di industrializzazione, estrazioni minerarie e agricoltura intensiva tra disboscamento, esaurimento delle falde acquifere e pesticidi. Si vorrebbe così stimolare un’osservazione empatica da parte dello spettatore, impressionato dalla vastità di nuovi e vecchi orizzonti, dalle lontananze e dimensioni ravvicinate riprese che rendono visibili particolari o dettagli impossibili a notarsi senza ingrandimento, generando originali vedute d’insieme di alterazioni naturali e artificiali nell’era dell’Antropocene. Questo, in sintesi, il pensiero del canadese Edward Burtynsky, fotografo e regista di film-documentari, nell’antologica che celebra quarant’anni della sua carriera, in corso a M9 – Museo del ‘900 di Mestre. In uno stretto e imprescindibile connubio estetica e contenuti sono suddivisi in due sezioni principali che rimandano l’una all’altra, Extraction / Abstraction, nel progetto allestitivo dello studio d’architettura Alvisi Kirimoto: enormi pannelli ospitano un’ottantina di fotografie di grande formato e dieci murales. Nella stanza “Process Archive” trovano posto strumenti tecnici, fotocamere e droni e il corto Where I Stand, che presenta l’artista con elevatori, aerei ed elicotteri, per far emergere il “dietro le quinte” e i viaggi che hanno determinato la restituzione reale e artistica della tessitura di un paesaggio ripreso ad altissima definizione. Introduzione alla visione in Sala M9 Orizzonti della pluripremiata proiezione multimediale immersiva In the Wake of Progress (2022).

Salt Encrustations #3, Lake Magadi, Kenya, 2017 (detail) © Edward Burtynsky, Courtesy Nicholas Metivier Gallery, Toronto

Lo sguardo di Burtynsky si posa anche sull’Italia, fissata nelle immagini tratte dalla campagna fotografica commissionata dalla Fondazione Sylva sugli effetti del disastro ambientale provocato dalla Xylella sugli olivi pugliesi. L’attività produttiva manifatturiera, con i suoi robot, automatismi e manodopera alienata, è protagonista in un terribile e seriale “sublime industriale” di interni di fabbriche automobilistiche e alimentari asiatiche e africane, mentre si susseguono ponti, dighe, strade e trasporti, coltivazioni e fognature, nonché immani mucchi di spazzatura. Si va dalle merci del Porto container di Rotterdam nei Paesi Bassi, quasi ordinate file di costruzioni di mattoncini Lego, al caos delle segherie nigeriane intorno alle baraccapoli del villaggio su palafitte di Makoko, alla periferia di Lagos, con la dispersione degli innumerevoli tronchi di alberi abbattuti anche illegalmente e legati come fossero scope di saggina in balia della laguna, alle interminabili cataste di pneumatici abbandonati e poi bruciati nella discarica americana di Westley in California, senza contare gli ammassi di oggetti di plastica e metalli a Nairobi in Kenya. I barili di petrolio ad Hamilton nell’Ontario in Canada, accartocciati o densificati come cubi di metallo pressato e compattato per facilitarne lo stoccaggio e il trasporto, paiono valigie pitturate e impilate in attesa del loro destino: smaltimento o riciclo. Si rimane soggiogati dalle profondità indorate e vivide delle miniere di rame di Morenci in Arizona (il quarto metallo più estratto al mondo dopo ferro, alluminio e cromo), sia dagli sterili o scarti “rabdomanti” delle miniere d’oro a Johannesburg in Sudafrica, quando non australiane, di carbone e metano, che a dispetto del riscaldamento globale, “disegnano” colline come fossero fiori di Bella di giorno, a Ravensworth nella Hunter Valley. Dai crinali con le saline spagnole abbandonate di Cadice, tra serpeggianti paludi di rivoli di acqua marina turchese, si giunge all’inganno dell’arcobaleno del bunkering del petrolio che traccia iridescenti schizzi psichedelici nel Delta del Niger.

Saw Mills #2, Lagos, Nigeria, 2016 (detail) © Edward Burtynsky, Courtesy Nicholas Metivier Gallery, Toronto

L’immagine del surreale e spezzato andamento del limo vulcanico del Þjórsá, il più lungo fiume glaciale islandese ricco di centrali elettriche, non è meno potente di quella delle conduttrici a raggiera dei bacini di decantazione delle miniere di diamanti sudafricane come “Big Hole” di Kimberley, o dell’impeto del fiume Colorado, che prima scorreva liberamente dalle sorgenti delle Montagne Rocciose fino alla California, per poi inaridirsi a seguito della realizzazione di dighe idroelettriche e canali di irrigazione, causando zone desertiche. Sempre dall’alto, il sovraccarico o cumulo policromo di materiali di superficie di roccia, terreno ed ecosistemi che ricoprono il deposito di valore nelle miniere di ferro di Sishen a Kathu in Sudafrica, assume la consistenza di matasse di fili di lana e semi, così come nel territorio delle saline senegalesi, ombre grigie di piedi possono sembrare piume e pozze multicolori, parere gemme o persino preziosi mosaici bizantini o klimtiani. E che dire poi dei giganteschi “cerchi nel grano” dell’irrigazione circolare texana che permettono agli agricoltori di attingere alle acque sotterranee anziché affidarsi unicamente alle precipitazioni atmosferiche, dato l’incombente siccità? Pura Land Art, come l’effetto di “Nautilus” o rosoni originati dalle combine negli scavi delle miniere sotterranee in Russia, per l’estrazione di carbonato di potassio, che hanno in sé oltre al bianco argenteo anche le sfumature vermiglie di minerali di antichi fondali marini evaporati. L’aridocoltura nella contea di Monegros in Spagna, basata sui criteri di sostenibilità dell’acqua seguendo il ciclo delle stagioni umide e secche, modella invece paesaggi alla Dubuffet. E viene allora da chiedersi con il curatore della mostra Marc Mayer, direttore della National Gallery del Canada e del Musée d’Art Contemporain di Montréal, se davvero i grandi artisti dell’Astratto e dell’Informale, fautori dell’indagine della forma, struttura e colore in quanto tali, ben lungi dalle accuse di non saper più disegnare o dipingere secondo i canoni del Realismo, non abbiano fatto null’altro che anticipare, con il potere delle loro menti e l’abilità delle mani, da inconsapevoli visionari in preda ad un “delirio di preveggenza”, le nuove esperienze collegate alla fotografia macro e microscopica. Arte e Tecnica possono vivere in simbiosi con l’Umano a meno di tornare a confrontarsi con la Natura creata da Dio. Una prospettiva di critica alternativa su cui meditare.

Immagine in evidenza: Burtynsky with Jim Panou in Agbogbloshie Recycling Yard, Accra, Ghana, 2017
Ph. Nathan Otoo, courtesy of the Studio of Edward Burtynsky

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