Attori, acrobati, musicisti e interpreti multidisciplinari immersi in universi onirici e rarefatti. Da luglio a ottobre 2024 sul palcoscenico del Teatro Goldoni debutta in prima assoluta Titizé – A Venetian Dream, lo spettacolo coprodotto dal Teatro Stabile del Veneto-Teatro Nazionale con la Compagnia Finzi Pasca, in partnership con la compagnia Gli Ipocriti Melina Balsamo.
L’opera è scritta e diretta da Daniele Finzi Pasca, tra i membri fondatori dell’omonima compagnia di base a Lugano in Svizzera, che nei suoi 40 anni di attività internazionale ha realizzato oltre 40 spettacoli, fra cui 3 cerimonie olimpiche, 2 spettacoli per il Cirque du Soleil e 8 opere liriche, che hanno calcato i palcoscenici di circa 600 teatri e festival in 46 paesi di tutto il mondo, per oltre 15 milioni di spettatori. Musiche, orchestrazione e sound design sono di Maria Bonzanigo, la scenografia di Hugo Gargiulo, scenografo associato Matteo Verlicchi, i costumi di Giovanna Buzzi, il tutto al servizio di un cast di undici talentuosi interpreti: Alessandro Facciolo, Andrea Cerrato, Caterina Pio, Francesco Lanciotti, Gian Mattia Baldan, Giulia Scamarcia, Gloria Romanin, Leo Zappitelli, Luca Morrocchi, Micol Veglia, Rolando Tarquini. Fedele al linguaggio dei sogni che restituisce immagini evanescenti, allusioni e miraggi, Titizé – A Venetian Dream è uno spettacolo che conduce lo spettatore in un universo rarefatto e surreale. La sua narrazione, apparentemente frammentata ma profondamente allusiva, si sviluppa in un gioco caleidoscopico che intreccia diversi piani di significato, rievocando un iperbolico grammelot. Uno spettacolo internazionale per tutti, veneziani e viaggiatori, che fonde tradizione e innovazione in un affascinante connubio tra clowneria, linguaggio del corpo e acrobazia con l’utilizzo di innovative macchine sceniche che danno vita a un teatro dello stupore e della leggerezza, senza dover ricorrere alla parola. Un invito a immergersi nell’essenza di Venezia, dove il passato e il presente si mescolano in un unico splendido racconto e le storie, sparse come conchiglie sulla spiaggia, ognuna con la sua bellezza e il suo mistero, si ricompongono in un prezioso mosaico. Una prima assoluta da non perdere!
Come definirebbe il suo teatro?
Lo definirei un “teatro dell’empatia”. Quarant’anni fa abbiamo cominciato a lavorare su questo tema, studiando le migliori modalità e forme sceniche attraverso le quali poter contribuire a curare gli animi attraverso le storie. Negli anni ha preso così forma questa idea di teatro, un personalissimo stile di creazione e di produzione. Interagiamo con centri universitari e di medicina con i quali ci relazioniamo in termini concretamente collaborativi, come se fossimo colleghi impegnati in uno stesso laboratorio. Non ci sono medicine qui con noi, solo storie! Il linguaggio del teatro di clowneria invita a un dialogo continuo con il pubblico, quindi in generale i nostri attori, acrobati, musicisti, danzatori e tecnici sono specialisti dell’empatia. Parallelamente potrei definirlo anche “teatro dell’artificio”. Sono pazzamente innamorato delle macchine sceniche: nella scena si sa che la realtà non serve, non sembra vera. La verità sulla scena ha bisogno di artificio, ha bisogno di illusione e allusione e noi siamo dei pazzi scatenati in questo, ci piace usare tutti gli elementi e i mezzi che possono creare illusione.
La verità sulla scena ha bisogno di artificio, ha bisogno di illusione e allusione e noi siamo dei pazzi scatenati in questo, ci piace usare tutti gli elementi e i mezzi che possono creare illusione.
Qual è stata la scintilla che ha guidato questa nuova dimensione teatrale verso la definizione della compagnia Finzi Pasca?
Essere una comunità di artisti come poche ne sono rimaste, un gruppo che nel tempo si mantiene molto unito, come per esempio la compagnia di Pina Bausch. Con Maria (Bonzanigo) quest’anno sono quarant’anni che lavoriamo insieme, con mio fratello Marco pure. Siamo partiti da un teatro di clowneria e, quindi, anche se non c’è un vero e proprio collegamento diretto, da un teatro che ha a che fare con la Commedia dell’Arte, caratterizzato da un modo di stare in scena come se tutto il tempo si fosse in proscenio, in dialogo con il pubblico. Che lo si veda o non lo si veda, si è sempre lì, tutto il tempo a creare una connessione con il pubblico.
Un curioso titolo “veneziano”, ma che diventa un suonoparola internazionale. Com’è nata l’idea di Titizé per questo progetto e quale il significato letterale e simbolico che ha voluto far assumere a questo titolo?
Titizé, “tu sei”: una parola emblematica e piena di ritmo, che con la sua evocativa sonorità richiama l’attenzione sul potere del verbo “essere”, sottolineando l’universalità di un’esperienza immaginata per coinvolgere intimamente un pubblico eterogeneo e di ogni età. L’idea è venuta a mio fratello Marco. Stavamo confrontandoci su diversi verbi, poi è venuto fuori quel “ti” come modo per rafforzare il tu; alla fine abbiamo compresso tutto insieme ed è nata questa parola: titizé, “tu sei”. Abbiamo scelto il “zé”, anche se ci sono due forme di scriverlo in veneziano, alcuni lo scrivono con la “s” e altri con la “z”, tuttavia abbiamo scoperto che le comunità venete che, ad esempio, vivono in Brasile usano la “z”. Questa seconda formula funziona dappertutto perché titizé può essere pronunciato agilmente da un orientale, da un tedesco, da un anglofono, da uno spagnolo. In questi anni ci siamo esibiti in più di cinquanta paesi in giro per il mondo, siamo abituati a calcare scene internazionali, quindi siamo pienamente consapevoli che trovare un titolo che non abbia bisogno di traduzione è sempre una buona cosa.
Qual è il fattore più importante nella creazione di uno spettacolo di questo tipo? E quale equilibrio si determina tra storia, attori, acrobati, effetti speciali, improvvisazione, musica, luci…?
Quando nel teatro si parte da un testo, l’ossatura chiaramente la dà la struttura narrativa. Ma in questo spettacolo, come in altri miei precedenti, la struttura narrativa è data da un’architettura di immagini che si sovrappongono l’una all’altra, esattamente come in un meccanismo onirico. Nei sogni c’è un continuo passaggio da un luogo all’altro dell’immaginario o del reale sognato, che procede per forme, per salti quasi temporali: ci si trova in una stanza, si apre l’armadio e si viene proiettati da un’altra parte… Per creare una narrazione di questo tipo bisogna tenere conto di tutta una quantità di elementi che vanno a costruire per l’appunto un’architettura. Ci sono acrobati che possono stare in scena, cambiarsi di costume, essere nella successiva immagine secondo un tempo e un luogo diversi; è una composizione che viene interamente ideata e disegnata prima di andare in prova. La fase di creazione richiede mesi di lavoro durante i quali con scenografie, costumi, musiche, soprattutto con Maria, incominciamo a immaginare tutto quello di cui avremo bisogno. Per fare un’analogia, il tutto assomiglia molto alla cucina. Prima di cucinare ci si prepara, soprattutto se si tratta di un’occasione importante in famiglia, di un banchetto o di un veglione di fine anno; ci si confronta, si parla, si pensa a cosa comprare. Poi si va al mercato a prendere il necessario, dove capita di trovare quello che si cercava o talvolta di prendere altro a cui non si era pensato. Ecco, noi abbiamo fatto proprio queste discussioni per capire quello che volevamo, siamo andati a fare la spesa e da quattro settimane stiamo ‘cucinando’. Ora è iniziata un’altra fase: tutto è stato disegnato, immaginato e ora, cucinando, scopriamo che quello che avevamo in mente non sta venendo esattamente come avremmo voluto. Diventa quindi necessario rimpolpare il piatto forte. Così si continua, come si fa in cucina, cercando di sfruttare al massimo quello che c’è a disposizione, mettendosi al riparo da eventuali imprevisti, perché forse ciò che hai preso non è come ti aspettavi o perché magari hai preso una piccola fregatura al mercato.
C’è anche una dose di improvvisazione che rimane viva?
Non userei il termine improvvisazione; più che altro c’è un continuo adattarsi. I nostri spettacoli sono un continuo lavoro di cesellatura. Dopo un anno, infatti, spesso invitiamo gli stessi amici che hanno assistito al debutto di un dato spettacolo perché sentano e vedano che cosa è successo nel frattempo. Ci sono diverse tappe: prima c’è il debutto, successivamente, dieci giorni dopo, ci sono degli assestamenti inevitabili dovuti all’incontro con il pubblico, se ne valuta la reazione ed eventualmente si aggiustano alcune cose. Infine, dopo circa tre mesi, c’è la fase in cui lo spettacolo si definisce e diventa ciò che è. Da quel momento comincia un lungo processo. C’è un nostro spettacolo, ad esempio, che va in scena da trentatré anni e che continuiamo a cesellare, a limare, cercando di farlo almeno una volta esattamente come vorremmo.
Nello spettacolo musica e costumi hanno un ruolo sicuramente fondamentale. Cosa rappresentano davvero per voi questi due elementi scenici?
La parola teatro, usando tutte le possibilità che ti fornisce l’artificio, significa proprio osare. Collaboro con Giovanna Buzzi, la nostra costumista, dai tempi delle Olimpiadi di Torino del 2006 e da allora non ci siamo più separati, attraversando nel tempo diversi mondi, dall’opera lirica ai grandi eventi al teatro. Con Giovanna nei costumi siamo riusciti a trovare un linguaggio, una cifra che ci permette di abitare uno spazio e un tempo sospesi, non precisamente databili o identificabili, non essendo mai coincidenti con quelli presenti. Con Hugo Gargiulo e Matteo Verlicchi, i nostri scenografi associati, cerchiamo sempre di trovare delle possibili sorprese, delle soluzioni per cambiare la scena. Naturalmente nei grandi teatri, nelle grandi produzioni o nel mondo lirico tutto questo accade in una dimensione gigantesca, stupefacente e monumentale, mentre in un teatro come il Goldoni bisogna tenere conto di tutta una teoria di elementi stringenti per riuscire a ottenere lo stesso effetto.
La luce per me è fondamentale, disegno tutti i miei spettacoli partendo sempre dalla luce. Io e mio fratello siamo figli di fotografi e anche nostro nonno e il nostro bisnonno lo erano, quindi credo che entrambi nel nostro lavoro portiamo questa eredità legata alla luce. In Titizé lavoriamo con dei tagli, delle tecnologie dal punto di vista della luce poco utilizzate a teatro, che creano delle possibilità di costruzione di geometrie davvero strabilianti. Non ho lasciato la musica per ultima a caso. Con Maria lavoriamo come dicevo da quarant’anni insieme; c’è quindi molta osmosi tra di noi, ci continuiamo ad influenzare a vicenda. Tutti i nostri spettacoli sono profondamente legati alla sua musica. Per questo spettacolo ha costruito una colonna sonora per certi aspetti quasi cinematografica, mixando musiche registrate e performance live, dal momento che tutti i nostri attori possiedono la caratteristica di essere acrobati, musicisti o clown, e poi alla fine tutte le cose insieme.
Il ruolo del pubblico. Come si costruisce un rapporto vivamente dialettico con esso e quanto conta stabilire una connessione empatica con lo spettatore?
Come detto, ci ha interessato fin dall’inizio il rapporto di empatia con il pubblico. Uno dei nostri lavori più emblematici ancora in scena è Icaro, uno spettacolo per un solo spettatore. Un progetto che al tempo stupì molto Guy Laliberté, che mi chiese poi di andare a dirigere il Cirque du Soleil. È una strana magia quella che si crea in Icaro, dove un attore incontra un solo spettatore ogni notte e gli racconta una storia in scena prendendolo per mano. Probabilmente prima che a Parigi i teatri diventassero all’italienne, prima che si inventasse il sipario, ci sarà stata una sorta di scatola nera che assomigliava molto a quello che succede nei sogni. Quando chiudiamo gli occhi, lì dentro, in quella scatola nera che abbiamo nella testa o nel cuore, chissà dov’è…, c’è ancora luce e puoi vedere e immaginare cose. Tutto ad un tratto si crea questa bella dimensione in cui spegni le luci e dal buio iniziano ad affiorare immagini che ti vengono a cercare. Il proscenio rimane il territorio dei clown, degli attori che dialogano con il pubblico. Noi siamo specialisti del proscenio, siamo nella terra di mezzo, su di un pontile dal quale si osserva e su cui non si può recitare. C’è una differenza enorme tra un clown e un attore, perché un attore interpreta un personaggio, ma nessuno a teatro ha bisogno di credere che sia vero. Quando guardi un attore, sai che non è Amleto, che sta solo interpretando una parte, invece il clown non puoi pensare che stia recitando. Chaplin è un attore, Charlot è sé stesso; avrebbe potuto stare in proscenio a dialogare con il pubblico come poteva farlo Dario Fo, come può farlo Benigni, come lo faceva in modo ammirabile Troisi. Non credi stiano recitando anche se in realtà lo stanno facendo, però è appunto una forma che non dipende dalla modalità della recitazione ma piuttosto, secondo me, dalla morfologia del luogo. Se sei in proscenio il pubblico ti crede, ma se gli sfiora il dubbio che stai recitando l’incanto svanisce.
Il proscenio rimane il territorio dei clown, degli attori che dialogano con il pubblico. Noi siamo specialisti del proscenio, siamo nella terra di mezzo, su di un pontile dal quale si osserva e su cui non si può recitare.
Dalle sue parole pare matericamente evidente che questo vostro progetto sia assolutamente adatto al luogo che lo accoglie. Come si è trovato a lavorare in quello che è il più antico teatro al mondo ancora in attività? Quale ruolo giocano Venezia e il Teatro Goldoni in Titizé?
Siamo partiti da Venezia, volevamo raccontare in modo “onirico” la città, ricreare la sua magia, invitando le persone a frequentare questo magnifico teatro anche durante l’estate, quando di solito è chiuso. L’intuizione consiste nel raccontare quello che d’estate chi visita Venezia non può vedere: il silenzio, le nebbie, gli incontri fantastici che accadono in questa città sorprendente, dove si può imboccare una calle e trovarsi all’angolo giusto o trovarsi in un labirinto o, ancora, in un vicolo cieco che porta direttamente all’acqua e non resta che tornare sui propri passi. Vogliamo mostrare questo mondo labirintico e affascinante a chi si accalcherà quest’estate tra le calli e sui ponti di Venezia ma anche ai veneziani stessi, per far sentire e riscoprire la sua parte più magica, più notturna, quella del mascheramento, del Pulcinella di Tiepolo piuttosto che del Maestro Goldoni. Riferimenti e citazioni tali che chi li riconosce possa rifarli suoi e chi invece non li riconosce non abbia bisogno di farlo per capire cosa accade in scena, perché l’unica nostra vera intenzione è di riuscire a sorprendere, a toccare, ad eventualmente commuovere.
È come dialogare con l’esperienza di ognuno; ogni spettatore avrà per così dire il suo Titizé?
Dove c’è allusione è così. Ci sono spettacoli che sono dei romanzi e ci sono degli spettacoli che sono più raccolte di poesie e Titizé appartiene a questa seconda sfera; è più allusivo, necessita meno di comprensione, anzi.
Si prospetta un’estate fantastica, acrobatica, magica, che ci porta inevitabilmente a fare un collegamento alle prossime Olimpiadi di Parigi. Quale ricordo conserva della sua esperienza alle Olimpiadi di Torino e Sochi?
Sono state due cose molto diverse. I Giochi di Torino erano Olimpiadi in terra conosciuta, soprattutto una festa. È stato un vero e proprio debutto nel mondo delle cerimonie olimpiche che mi ha portato a rapportarmi con una dimensione enorme. Mi sono trovato a dover ideare uno show particolare per uno stadio e al tempo stesso un gigantesco spettacolo televisivo. Sochi è stata una cosa differente perché era necessario creare monumentalità. Se ospitano le Olimpiadi gli austriaci, gli italiani o i greci, la dimensione da restituire deve innanzitutto riguardare il tratto umano, il fascino di un paese; se le ospitano invece i cinesi, gli americani o i russi la dimensione fisica della messa in scena assume un’importanza fondamentale per dimostrare che stiamo parlando di giganti, di grandi potenze mondiali, cosa che per un creatore e per un team come il nostro è stata anche ben divertente. In Russia dovevamo curare due cerimonie, quella di chiusura delle Olimpiadi e quella di apertura dei Giochi paralimpici. Ebbene, ci siamo resi conto presto che non avremmo avuto il tempo di ‘cucinare’ tutto quello che avremmo voluto. Così ci siamo riuniti tutti a Mosca, un centinaio di persone tra produttori e altri addetti ancora, perché era ormai chiaro che eravamo costretti a dover fare necessariamente delle scelte. Prima della riunione però ricevo una telefonata dalla mente dietro a tutto, Kostantin, il capo assoluto, che mi dice: «Dani, everything is fantastic, no doubt, but we need something more». Noi pensavamo a tagliare e loro volevano di più! Sorpreso, sono rientrato nella sala riunioni e ho detto a tutti di mettere via le cartellette con le scelte, perché oltre a quello che avevamo già fatto dovevamo pensare a qualcosa di ancora più grande e stupefacente nei due o tre giorni di tempo rimanenti. La dismisura è un allenamento meraviglioso! Dopo l’esperienza russa sono tornato a fare Icaro, un ritorno all’intimità, alla semplicità: due letti, 18 punti luce, un armadio e una sedia.