Prima il cinema, poi la musica

Roberto Pugliese racconta Pino Donaggio
di Riccardo Triolo

Nel suo ultimo libro, il critico cinematografico descrive il genio compositivo dell’artista veneziano.

Se il cinema può essere letto come un’estensione dell’attitudine musicale, per dirla con Giovanni Morelli, autore nel 2011 di Prima la musica, poi il cinema (Marsilio) luminoso saggio che legge il cinema come esito di pratiche estetiche prettamente musicali, per Pino Donaggio dobbiamo fare un’eccezione. Se l’assunto morelliano che vede la musica precedere esteticamente il cinema può risultare congruo nell’avvicendamento di due arti contigue, crolla se riferito all’esperienza del compositore veneziano. A ricordarci la vicenda artistica di uno tra i più eclettici e sorprendenti autori di musica per film è la prosa critica rigorosa e smagliante di Roberto Pugliese, che con il suo Venezia-Hollywood. Pino Donaggio per il cinema e la televisione (Falsopiano) mette ordine nella carriera multiforme di un grande compositore, spesso ricordato solo per aver scritto ‘canzonette’, come la celeberrima Io che non vivo (senza te) del 1965, che Elvis volle per sé nel 1970. Ben prima di sfondare a Sanremo – ricordiamolo – Donaggio era un promettente e richiesto violinista. Dalla sua Venezia (è nato a Burano nel 1941), si sposta a Milano per collaborare con Claudio Abbado, per poi tornare in Veneto tra I Solisti Veneti di Claudio Scimone, con cui collabora fino all’esordio all’Ariston nel 1961. In principio, sì, fu la musica. Poi venne il cinema. Che arriva cinquant’anni fa in una circostanza in cui il caso sembra più coerente del destino, quando Nicolas Roeg lo scrittura per il suo giallo psicologico A Venezia… Un dicembre rosso shocking (Don’t Look Now, 1973), un successo internazionale girato nella sua città. Da quel momento in poi, nell’arte di Donaggio, il rapporto tra musica e cinema si capovolge. Come rivela Pugliese, al contrario di Morricone Donaggio compone ‘sulle’ immagini, non ‘per’ le immagini.

La sua musica cioè nasce su ispirazione visiva, aderisce alle immagini e dà loro corpo, spessore emotivo, colore. Felicissima, in questo senso, la collaborazione con Brian De Palma, per Carrie – Lo sguardo di Satana (Carrie, 1976) e Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) ma soprattutto per Blow Out (1981), che ragiona proprio sulla giustapposizione del suono all’immagine, sulla ricerca del suono perfetto. Ma perfetto per cosa? Non tanto perché aderisca all’intenzione del regista, compiacendo il suo sguardo, piuttosto perché alle immagini fornisce, come in Blow Out, una ‘chiave di lettura’ anche rivelatrice. L’istinto leitmotivico di Donaggio si traduce in una scrittura per completamento, che pare dialogare con le immagini e ispessirne il senso, funzionando a volte al di sopra di esse. Come nel caso della produzione per certo cinema di genere basso, riscattato grazie alla ricercatezza delle musiche (su tutti lo score per Così fan tutte di Tinto Brass, sulle cui carni tremule risuonano sopraffine eco mozartiane). C’è il cinema di genere, più che gli autori nella vicenda artistica di Donaggio. Destino di chi intercetta il cinema nei Settanta, prolificissimi di pellicole dei generi più disparati. Dopo De Palma, Joe Dante, Lucio Fulci, Ruggero Deodato, Romero e Argento. Ma anche Cavani, Placido, Avati. E a chi ha provato a piegarlo, a condizionarlo secondo preconcetti o stilemi estranei alla sua poliedrica sensibilità, figlia di una solida formazione classica, di una cultura musicale e di una sensibilità in grado di spaziare dalla dodecafonia alle avanguardie, fino alla musica applicata e leggera, Donaggio ha sempre saputo rispondere con la sorpresa, con la felicità di una scrittura sempre riconoscibile, che con le immagini intrattiene un rapporto rivelativo, interpretativo e per questo libero.

Foto in evidenza: Pino Donaggio e Brian De Palma, 69. Mostra del Cinema di Venezia (2012).

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