A Ca’ Pesaro la mostra Il ritratto veneziano dell’Ottocento ricostruisce la storica rassegna organizzata nel 1923 da Nino Barbantini, per la riscoperta dell’arte veneziana di un intero secolo.
La riproposizione critica della mostra Il Ritratto veneziano dell’Ottocento, a cento anni di distanza da quel fatidico 1923 in cui la seppe organizzare in velocità e nello stesso luogo, l’allora direttore di Ca’ Pesaro Nino Barbantini (Eugenio per l’anagrafe, Ferrara 1884-Venezia 1952), coadiuvato da studiosi quali Gino Fogolari, Giulio Lorenzetti e Giuseppe Fiocco, si configura oggi come un grande affresco sociale e di costume del Triveneto attraverso un’ingente selezione di dipinti, disegni e sculture, eseguiti da artisti popolari e meno noti. Ritratti che non cessano di affascinare il pubblico per l’intensità dei loro volti e mode, alcune delle quali ancora non dissimili dalle nostre, facendo trasparire passioni ed esistenze colte nella loro “semplicità elegante” o “responsabile sfacciataggine”, vissute tra mondanità e intimità aristocratiche e borghesi.
Alcuni cambi d’identità, riguardanti autori di opere o gli effigiati stessi, a causa di mutati metodi di studio o ritrovamenti di opere e documenti dispersi, costituiscono la più motivata difesa al rifarsi della mostra stessa, giustificando così l’omaggio a Barbantini, che seppur incorso in inevitabili errori di attribuzione, già nel 1945 asseriva che «Le esposizioni dovrebbero servire, per l’appunto o soprattutto, a mettere in discussione quello che va discusso, mentre ad archiviare ciò che è indiscutibilmente lodevole o glorificabile dovrebbero servire i musei».
Un criterio condivisibile e valevole per i curatori odierni della mostra Elisabetta Barisoni e Roberto De Feo, ma anche per gli autori di saggi in catalogo, quali Nico Stringa, Alessandra Tiddia e Cristina Beltrami, per gli schedatori e per le generazioni future. È un dato di fatto che, per motivi di spazio e in forza di nuove acquisizioni museali, spesso nei musei le collezioni permanenti perdano la loro caratteristica di permanenza, mediante slittamenti di opere che periodicamente ‘ruotano’ o finiscono nei depositi museali in attesa di venire riscoperte.
L’attualità della memoria è nel sentimento del racconto visivo d’epoca che si fa perdurante testimonianza nel congiungersi con il presente, cogliendone l’intima essenza e infondendogli nuova linfa. Non me ne vogliano gli altri autori in mostra se qui di seguito accogliamo una affascinante e significativa selezione di solo ritratti di signora.
Il veneziano Francesco Hayez unisce in un’immagine geniale, mito e realtà, ideale icona italica di romantica classicità romana vicina a Correggio ed Ingres, sublimando corpo e ardore di spirito nel filo rosso che scivola e circonda la sensuale posa del nudo allungato di schiena e in controluce della ballerina Carlotta Chabert (Rovereto, Mart), passionale Venere “capitolina” tra la purezza delle colombe. L’umore pensoso e malinconico insieme all’infelicità della salute precaria tutta ottocentesca eppure senza età, grava nella posa studiata per alleviare la fatica dei lunghi tempi di posa de La contessa Beatrice Salvi Anselmi (Vicenza, Museo Civico di Palazzo Chiericati), ritratta dal vicentino Giovanni Busato, a ricordare silenziosamente colei che nel 1848 fu la prima a gettare il vessillo tricolore a sventola- re fuori del suo palco veneziano alla Fenice.
Diafani merletti di Burano descritti con accuratezza e verosimiglianza tattile, per non dimenticare la tradizione, emergono sia nei polsi che nel colletto de La Contessa Giuseppina Muzzarelli Roux (1855-60, Bassano del Grappa, Museo Civico) del sandrighese Pietro Roi, cheritrae la sensibile collezionista che donò la sua sostanziosa collezione d’arte al Museo di Bassano, così come nella scollatura che lascia scoperte le spalle di una enigmatica e “non ancora baronessa Reinelt” ma presumibilmente nubile Angela Fassetta (1850, Venezia, Ca’ Pesaro), con la sua delicata peonia in mano, simbolo di una antica, nuova promessa d’amore che si rinnova oltre la morte di cui è portatrice nel dipinto schiavonesco (si lasciò alle spalle il lutto di persone amate e degli stessi artisti e collaboratori triestini Natale e Felice Schiavoni, padre e figlio).
I pizzi ritornano superbamente anche nel merletto ad ago del colletto di Margherita Donati (Venezia, Ca’ Pesaro), moglie dell’artista milanese Guglielmo Stella, insegnante e direttore della Regia Scuola Veneta d’Arte applicate a Venezia, fondata ufficialmente nel 1872 e ancora oggi Liceo Artistico Statale Michelangelo Guggenheim, con percorsi che spaziano dalle arti figurative al design di tessuti, vetro, metallo, con l’ausilio della grafica e del multimediale.
Intramontabili pendenti a goccia, simbolo di vitalità e virtù, rinsaldano i legami familiari di madre in figlia, siano essi di corallo (la genitrice Anna Adani Baldassini) o di perle (le figlie Luigia, Elena e Giovanna, che sposò il pittore Lattanzio Querena di Clusone che ritrasse lei, le sorelle e la suocera, una ad una, in differenti angolazioni).
La Giovane Signora sorridente e senza nome (1858) del pittore Gian Francesco Locatelli, di agiata famiglia veneziana, dal capo velato e un bianco scialle con fiori rosa, potrebbe essere ispirata a Linda (Leonilde), moglie del noto pittore Guglielmo Ciardi.
La vecchiaia “impegnata” che nella stanchezza delle sue rughe e nello sguardo fisso ai problemi, rischia di far perdere lucidità, è raffigurata mirabilmente in Virginia Sartorelli (Venezia, Ca’ Pesaro), opera del pordenonese Michelangelo Grigoletti, ed assume l’aspetto di una anziana donna dal volto ‘levigato’, i capelli nascosti da una impalpabile cuffia di pizzo e fiori, la cui giovinezza della pelle ancora rosea si accompagna alla profondità di un temperamento arguto: degna ambasciatrice di un secolo, l’Ottocento, che cerca di resistere, senza invecchiare.