Già Leone d’Argento nel 2021, la coreografa irlandese Oona Doherty torna a Venezia a presentare in prima nazionale la sua ultima creazione Navy Blue in programma per la 17. Biennale Danza.
Abbiamo avuto il piacere di intervistarla due anni fa, in occasione di Biennale Danza 2021, quando le è stato conferito il Leone d’Argento e ha presentato in prima nazionale il suo Hard to Be Soft – A Belfast Prayer, primo lavoro importante del 2017, che l’ha catapultata al successo internazionale, in cui ha saputo ha catturare l’energia e le atmosfere della sua città natale con originalità, affetto e vitalità. «Danzare è una sorta di preghiera per me, che coinvolge anima e corpo. E quando sono sul palcoscenico mi sento in preda ad un’energia che non so dire esattamente da dove provenga – ci aveva rivelato Oona Doherty durante l’intervista –, forse dall’atto stesso del pubblico che guarda una persona che danza. È come se il teatro fosse una parte infinitesimale del rituale liturgico. Quando ballo è come se venissero fuori tutti i miei fantasmi in una sorta di processo catartico; forse però non sono solo i miei fantasmi, ma anche quelli del mio lignaggio, dei miei antenati. Anche se non sono un sacerdote e tantomeno uno sciamano, talvolta la danza mi fa sentire come se fossi portatrice di un messaggio proveniente da un mondo ignoto».
Per Altered States la coreografa nord-irlandese è stata invitata con Navy Blue, creazione più ampia e inquietante, commissionatale dalla stessa Biennale e coprodotta con Kampnagel International Summer Festival, Sadler’s Wells, Théâtre National de Chaillot, Maison de la Danse di Lione, Belfast International Arts Festival, The Shed and Big Pulse Dance Alliance, che raccoglie Dance Umbrella, Dublin Dance Festival, Torinodanza Festival, Julidans. Una rete di altissimo profilo a riprova del grande interesse internazionale riscosso dal nuovo lavoro di Doherty.
Ambientato in una fabbrica, luogo opprimente che evoca la catena di montaggio, dove 12 danzatori in tuta da lavoro si muovono all’unisono, Navy Blue è un’ode frastagliata alla crudeltà e all’inutilità della vita. Una storia viscerale sulla nostra insignificanza di fronte all’enormità dell’universo: «noi piccoli punti in piedi sul nostro punto blu, che lottano tra loro per essere momentanei protagonisti di una frazione di un fottuto punto» dice la voce di Doherty fuori campo.
I danzatori, prima disposti in un’unica linea e poi nello spazio, eseguono i passi sulle struggenti note del Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in do minore di Rachmaninov, lasciando immaginare un adagio neoclassico ma, dopo poco, colpi di pistola alla Squid Game punteggiano il lussureggiante romanticismo del brano. Ora il sottofondo è la voice over della coreografa che, continuando l’analisi sulle disuguaglianze sociali, sui ruoli di classe e di genere, recita un testo scritto a quattro mani con l’autore, attore e regista Bush Moukarzel, ispirandosi al Pale Blue Dot dell’astronomo Carl Sagan.
«Niente verrà a salvarci da noi stessi, quindi sì, ne prendo un doppio», dice Doherty mentre la colonna sonora del dj e producer londinese Jamie xx, con sintetizzatori gonfi, percussioni melodiose e infine terrore puro, accompagna il crescendo drammatico della coreografia fino all’estrema danza del panico dello spettacolare assolo di Amancio Gonzalez.
«Ci inarchiamo nel nero galattico dello spazio profondo. Disseminato di stelle cadenti, con corpi che squarciano il cielo notturno di un profondo blu acrilico. Questo è un inchino alla danza – scrive Doherty in una nota –, questa è una domanda su cosa fare dopo». E conclude lo spettacolo dicendo: «Uscirò da questo teatro, e voi uscirete da questo teatro, e faremo cose insignificanti ma quelle cose, grazie a Dio, conteranno».