Economia sentimentale

Intervista a Carlo Giordanetti, manager di Swatch e CEO Swatch Art Peace Hotel
di Mariachiara Marzari
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Swatch da anni sostiene gli artisti con la creazione dello Swatch Art Peace Hotel a Shangai e con la partnership consolidata, sei edizioni consecutive, con Biennale Arte. Operazioni non di pura sponsorizzazione ma di “scambio”, entrando nei progetti stessi e creando contenuti artistici capaci di restituire un punto di vista personalissimo e coloratissimo sui linguaggi visivi e della creatività contemporanea, che a sua volta creano contenuti sul prodotto. Con Carlo Giordanetti abbiamo parlato di arte, impresa, artisti, Biennale, Venezia.

Una delle collezioni d’arte più importanti al mondo, quella del Centre Georges Pompidou di Parigi, e in particolare cinque capolavori di Frida Kahlo, Amedeo Modigliani, Robert Delaunay, Vassily Kandinsky e Piet Mondrian sono i protagonisti della nuova bellissima serie di orologi Swatch. Non un’operazione di merchandising e nemmeno una riproduzione fedele, bensì un puro atto creativo, che racconta il rapporto importantissimo dell’azienda svizzera con l’arte e, soprattutto, con gli artisti. Swatch da anni infatti sostiene gli artisti con la creazione dello Swatch Art Peace Hotel a Shangai e con la partnership consolidata, sei edizioni consecutive, con Biennale Arte, operazioni non di pura sponsorizzazione ma di “scambio”, entrando nei progetti stessi e creando contenuti artistici capaci di restituire un punto di vista personalissimo e coloratissimo sui linguaggi visivi e della creatività contemporanea, che a sua volta creano contenuti sul prodotto. Protagonista indiscusso di questa visione creativa e di questa filosofia del progetto legato all’arte, divenuta un pilastro fondamentale del marchio, è Carlo Giordanetti, manager di Swatch e CEO dello Swatch Art Peace Hotel. La presenza Swatch alla 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia è composita e restituisce in pieno questa visione: ai Giardini, The Description of the World è un’installazione site-specific progettata dall’artista thailandese Navin Rawanchaikul; all’Arsenale, nelle Sale d’Armi, Swatch Faces presenta le opere di cinque artisti che sono stati in residenza allo Swatch Art Peace Hotel. Come è ormai tradizione da alcune edizioni, Swatch presenterà anche un’edizione Swatch Art Special, nonché i modelli di orologio ispirati all’identità grafica della Biennale Arte 2022. Abbiamo incontrato Carlo Giordanetti per parlare di arte, impresa, artisti, Biennale, Venezia.

In questi tre anni fortemente connotati dall’incertezza e dall’instabilità come è cambiato l’approccio di Swatch alla ricerca e all’espressione creativa?
Due sono gli elementi fondamentali che hanno connotato il nostro lavoro in questo periodo. Il primo, che fin dall’inizio ha caratterizzato la filosofia Swatch, è quello dell’accessibilità, l’idea di creare una community attorno ai progetti. Nelle circostanze particolarissime in cui ci siamo trovati questo aspetto si è significativamente rafforzato. Durante il primo lockdown siamo stati presi in contropiede: ci siamo trovati costretti a chiudere 100 negozi al giorno. In quel momento non eravamo certo la più dinamica delle aziende sul digitale. Il vero momento di svolta è stato quando abbiamo “risollevato la leva” e siamo ripartiti promuovendo un progetto basato sul concetto di inclusività. Abbiamo cioè attivato i nostri venditori di tutto il mondo, che in quel momento sostanzialmente erano a casa, e abbiamo chiesto loro di produrre contenuti per i social media, di parlare in maniera creativa delle loro città e della loro vita in quel preciso momento. La partecipazione è stata totale: partito il tutto come un gioco siamo arrivati a creare dei programmi specifici dedicati alle singole città, a cui gli utenti potevano partecipare online. Un esperimento innovativo che ci ha fatto comprendere come l’accessibilità e l’inclusività siano fattori molto importanti e decisivi su cui si deve senza remora alcuna puntare in tutti i settori della vita sociale, ma anche dell’industria, dell’economia. Anche sul fronte prettamente creativo abbiamo raccolto una lezione importante. Dal 2011 a Shanghai siamo impegnati nel progetto di residenze artistiche dello Swatch Art Peace Hotel e appena è scattata l’emergenza Covid quasi tutti gli artisti lì impegnati sono tornati subito a casa. Tuttavia una coppia, un’artista italiana e uno americano, si sono trovati d’accordo sul fatto che in quel momento, con le dovute precauzioni, quello fosse il luogo più sicuro in cui rimanere, iniziando da quel momento a lavorare sulla progettazione di una comunità virtuale di artisti. Grazie a loro lo Swatch Art Peace Hotel non ha mai chiuso. Anche se le residenze d’artista non sono direttamente legate al marchio Swatch per quanto riguarda l’aspetto commerciale, poiché trattasi di un progetto totalmente filantropico, l’ispirazione proveniente da queste esperienze, connotate da un approccio dinamico, sorprendente, capace di produrre forme di resistenza tenace, creativa al cospetto di quella surreale interruzione totale della vita sociale e del lavoro in presenza, ha avuto ancora una volta una decisa influenza sull’azienda, sulla sua radice identitaria. Una radice che ne è uscita ancora più consolidata da queste esperienze, che poi non sono alla fine altro che l’espressione migliore delle ragioni per cui abbiamo istituito lo Swatch Art Peace Hotel a Shanghai, vale a dire progettare un incubatore di nuove energie e idee da sviluppare.
Il secondo elemento, per me fondamentale, fil rouge da sempre di tutte le nostre attività, sono i contenuti. Nessun nostro progetto è fine a sé stesso; pur utilizzando il linguaggio pop della leggerezza, deve avere sempre qualcosa da dire. A causa della pandemia abbiamo naturalmente dovuto ripensare la strategia di lancio dei prodotti, quindi conseguentemente anche l’elaborazione dei progetti con i singoli artisti. L’installazione che presentiamo ai Giardini è una restituzione plastica, direi “macroscopica” di questa mutazione. Dopo aver portato alla Biennale Arte del 2017 la fantastica Giardini Colourfall di Ian Davenport, un’istallazione che più Swatch di così non poteva essere, e successivamente, nell’edizione 2019, The Flags, un omaggio a Venezia di Joe Tilson, quest’anno abbiamo sostenuto la creazione dell’opera di Navin Rawanchaikul, che nasce su basi sociali, indagando in maniera assolutamente personale e creativa i migranti presenti a Venezia, un altro modo per assolvere l’esigenza emersa prepotentemente in questo periodo, ossia quella di osservare e di disvelare il più acutamente possibile l’infinita teoria di connessioni che legano le persone anche le più diverse tra loro. A pensarci bene, in realtà vi è un terzo elemento da considerare, ovvero che questa pausa forzata che ha coinvolto tutti i settori dell’azienda, compresa l’intera produzione, ha permesso di sviluppare più rapidamente rispetto a quanto accadeva in tempi normali alcune innovazioni del prodotto, a partire dall’utilizzo di nuovi materiali. A settembre 2020 abbiamo lanciato le plastiche di origine biologica e nel 2021 la bioceramica. Questa accelerazione nei processi penso sia dovuta anche al fatto che le teste di tecnici, ingegneri ed esperti hanno avuto il tempo di pensare, di elaborare nuove soluzioni senza la pressione delle mille emergenze del quotidiano. C’è stato una sorta di “boosting” delle energie.

Il percorso intrapreso con Biennale non è solo sponsorizzazione, ma partecipazione con progetti e contenuti originali. L’enorme valore di questa collaborazione è infatti offrire un angolo di visuale sul marchio che non passa dal prodotto vero e proprio.

Come è maturata la scelta di Navin Rawanchaikul per il progetto Swatch di questa attesissima Biennale Arte? Quale storia racconta l’installazione?
È stato proprio un colpo di fulmine. Nel 2021 abbiamo sviluppato una partnership con il MAXXI di Roma in occasione del decimo anniversario dello Swatch Art Peace Hotel. L’emergenza sanitaria ha reso impossibile recarsi a Shanghai fisicamente, così abbiamo deciso di portare lo Swatch Art Peace Hotel “fuori le mura” in alcune iconiche venues dell’arte moderna e contemporanea e in alcuni eventi internazionali temporanei: al MAXXI di Roma, al Festival di Locarno, alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia e all’Expo Dubai 2020. Quando siamo andati a inaugurare la mostra al MAXXI, nella lobby d’entrata c’era un enorme murale con il coloratissimo saluto “Ciao da Roma” di Navin Rawanchaikul. Sono stato colpito subito da quest’opera perché era esteticamente in perfetto stile Swatch: allegra, molto powerfull. Tuttavia sono stato altrettanto attirato, osservando l’opera con più attenzione, dal peculiare background di cui era espressione e che eloquentemente restituiva. Ho contattato allora subito Navin, a cui la proposta è piaciuta molto, accogliendola immediatamente con grande entusiasmo. L’artista era già stato in Biennale nel 2011 con Naviland, progetto per il Padiglione della Tailandia. Navin ha iniziato subito a sviluppare il nuovo progetto e, in decisa controtendenza al blocco causa Covid, è partito da Chiang Mai in Tailandia per insediarsi a Venezia.

Dopo il periodo di quarantena di dieci giorni, ha come prima cosa iniziato a incontrare molti membri di comunità straniere arrivate negli anni in città e qui stabilitesi: nepalesi, cinesi, anche ricche signore tailandesi. A quel punto sono stati determinanti due aspetti: primo, grazie all’assistente che gli è stato affiancato, Navin ha “scoperto” i veneziani e alcune loro associazioni, vedi, ad esempio, Laguna nel Bicchiere; secondo, nei primi dieci giorni di permanenza a Venezia l’artista ha letto Il milione di Marco Polo, libro divenuto poi il filo conduttore del progetto stesso. Navin ha infatti posto la sua ricerca in costante dialogo con le storie raccontate dal leggendario esploratore veneziano, tanto da intitolare l’installazione La descrizione del mondo, riprendendo appunto il titolo originale francese de Il milione, Le Divisament du Monde. L’opera sarà accompagnata ai Giardini da una lettera dell’artista stesso a Marco Polo, lettera in cui Navin racconta il suo viaggio all’inverso, dall’Oriente a Venezia, esprimendo la sua personale visione di che cosa sia diventata oggi questa città. La sua ricerca artistica pone al centro la figura umana: protagonisti di questa nuova opera sono, dunque, Cristoforo Colombo, il Monumento a Garibaldi, lo stesso Marco Polo, ma anche tutte le persone che Navin ha intervistato, dai ragazzi che lavorano nei ristoranti della città a quelli che hanno scelto la città come luogo di residenza o vacanza. Si tratta di una mappatura di Venezia molto pop, colorata e di dimensioni considerevoli. Noi infatti ci entusiasmiamo sempre facendoci immancabilmente prendere la mano; così quella che inizialmente doveva essere una sola parete in cui dipanare questa “mappa umana” in divenire è diventata infine un’opera composta da ben 44 elementi distribuiti su 9 strati! All’interno di questa struttura tanti piccoli altoparlanti riproducono la lettera di Navin a Marco Polo, letta in lingue diverse: dal thai all’hindu (l’artista è infatti di origini indiane), al francese, all’inglese, all’italiano. Un racconto per immagini e parole di grande impatto emotivo e di altrettanta suggestione. Ci siamo entusiasmati a tal punto da non aver trovato il tempo necessario per realizzare l’orologio dedicato all’opera, che presenteremo però qui a settembre.

Da molti anni mantenete un forte legame con Biennale, in particolare in occasione delle mostre d’Arte. Come sono evolute nel tempo le modalità di questa importante sponsorizzazione che possiamo definire un vero e proprio sodalizio artistico?
Siamo riusciti negli anni a crearci una solida reputazione di azienda che lavora con gli artisti all’insegna di un religioso rispetto per la loro libertà espressiva. Io credo che sia proprio questa nostra coerente e tenace disposizione la ragione che ha reso possibile costruire una relazione all’insegna della reciproca fiducia con questa straordinaria istituzione culturale, il che ha fatto sì che tra di noi si andasse oltre la mera logica di sponsorizzazione costruendo una vera e propria partnership. Il percorso intrapreso con Biennale fa parte dei nostri corporate social responsibility projects: non solo sponsorizzazione, con relativo investimento economico e conseguente ritorno commerciale, ma partecipazione con progetti e contenuti originali. L’enorme valore di questa collaborazione è infatti offrire un angolo di visuale sul marchio che non passa dal prodotto vero e proprio.

Sono ormai molti i progetti da voi prodotti per Biennale e moltissimi gli artisti coinvolti a Venezia e a Shangai. Come si configura la Collezione Swatch?
È una collezione che si è creata in maniera quasi spontanea e direi naif. Se è vero che negli anni abbiamo lavorato con grandi protagonisti del contemporaneo quali Sam Francis o Akira Kurosawa, a cui abbiamo chiesto il design dell’orologio, è altrettanto vero che non abbiamo mai acquistato o chiesto in cambio una loro opera. A ripensarci ora sembra in effetti incredibile, perché una volta che instauri delle relazioni di questo tipo con figure di questo livello, rapporti peraltro sempre molto friendly, è quasi automatico uno scambio di questa natura. Ad esempio di Keith Haring non abbiamo niente di originale, solo un manifesto di un festival di breakdance che l’artista aveva realizzato prima di diventare famoso, nel 1984. La collezione ora si sta molto ampliando anche grazie agli artisti dello Swatch Art Peace Hotel, che in cambio della residenza hanno nei nostri confronti l’unico impegno di lasciare una propria opera, una traccia del loro passaggio, come è normale pratica in questi casi. Dalle opere di questi “residenti” si è formata e strutturata una collezione vera e propria, che è esposta in parte proprio a Shanghai. Il valore aggiunto della nostra collezione, o meglio della nostra relazione con gli artisti, è che spesso si alimenta e si sviluppa in altri progetti, come per esempio quello di quest’anno ideato per il padiglione Swatch all’Arsenale. Gli artisti, dunque, grazie all’esperienza residente nel nostro “laboratorio” a Shangai possono poi godere di una piattaforma di visibilità pazzesca quale è per esempio la Biennale Arte. Quello che non facciamo invece è acquistare le opere: non fa parte della nostra filosofia.

La seconda parte del progetto Biennale 2022, Swatch Faces, è una mostra che diventa un vero e proprio padiglione all’Arsenale. Quali gli artisti coinvolti e quali i loro progetti per questa edizione?
In Arsenale dal 2015 presentiamo una selezione di artisti dello Swatch Art Peace Hotel. Il primo anno eravamo in una delle tese dell’Arsenale Nord, uno spazio bellissimo ma fuori proporzione e periferico rispetto al percorso principale dell’esposizione. Ora ‘occupiamo’ uno spazio all’interno delle Sale d’Armi, più centrale nel percorso e dalle dimensioni ragionevoli. In questa edizione lo spazio sarà animato dalle opere di cinque artisti, un mosaico originale di espressioni artistiche differenti. Il primo artista, il cinese Tang Shu, è un pittore nel senso più classico del termine: dipinge con colori ad olio. Durante il 2020/21 ha realizzato un lavoro sull’isolamento: un trittico esteticamente molto bello che raffigura, con prospettiva a volo d’uccello, una spiaggia dove le persone stanno distanti ma allo stesso tempo insieme. La seconda artista coinvolta anch’essa cinese, Landi, riflette perfettamente lo stile Swatch con un’opera molto attractive e colorata. Sempre dalla Cina arriva un’altra artista, Xue Fei, perfettamente in linea con il tema della Biennale 2022: il suo lavoro riconduce al surrealismo, i suoi piccoli personaggi ricordano quelli di Bosch. Si tratta di un’opera molto singolare: tre quadri che sono l’evoluzione di una stessa situazione nel tempo. Il quarto artista è il coreano Shin Hoyoon: la sua sfida è dare trasparenza alla materia senza usare materia trasparente. In questo caso presenta tre opere, due rappresentazioni del Budda e una posizione Yoga di riflessione, lavorate con delle lamelle di carta sottilissime tenute insieme da punti di resina trasparenti. Quinto e ultimo artista selezionato, Marcelot, un brasiliano che vive a Zurigo, a cui abbiamo commissionato noi un’opera. È uno scultore che crea delle strutture in acciaio e ceramica, che poi ricopre con la carta, utilizzando tutta una serie di tecniche diverse. Tra i suoi lavori ci sono alcuni busti di personaggi famosi quali Angela Merkel, Bolsonaro, Napoleone. Abbiamo deciso di portare in mostra proprio quest’ultimo, così da porre l’imperatore corso in contrapposizione con un Leone di San Marco ‘scolpito’ utilizzando decine di copie del Gazzettino e della Nuova Venezia, mentre per Napoleone l’artista ha preferito le copie di Le Monde. La criniera, le ali e il libro sono invece realizzati con tessuti veneziani selezionati dalla collezione Rubelli. Anche all’Arsenale la nostra presenza, quindi, si connota attraverso la restituzione di un legame importante con Venezia.

Il mio è stato un innamoramento estetico, Venezia ha toccato le corde di quel romanticismo innato che fa parte del mio carattere

Riprendendo l’affascinante tema, divenuto poi titolo della mostra, che Cecilia Alemani ha voluto mettere al centro di questa Biennale, le chiediamo quale sia il suo Latte dei sogni.
Vivere una in una dimensione altra, per così dire “alternativa”: una vita d’artista, ecco, ma non certo perché io faccia una vita d’artista…

Qual è l’elemento profondo che la lega a Venezia e da quando ha iniziato a costruire questo speciale legame personale con la città?
Negli anni della mia formazione educativa con Venezia ho avuto un unico flash da bambino, quando andavamo a trovare mia nonna che purtroppo era ricoverata in ospedale a Trieste. Mia madre volle fermarsi a Venezia per farmi vedere la città. Mio papà restò ad aspettarci a Piazzale Roma, mentre noi prendemmo il vaporetto per arrivare fino a Piazza San Marco, dove comprammo un bellissimo cervo in vetro di Murano che conservo ancora come una reliquia. Di quel giorno non mi ricordo quasi niente onestamente. Poi sono tornato e mi sono innamorato della dimensione della città, che oggi definiremmo “sostenibile”. Il mio è stato un innamoramento estetico, Venezia ha toccato le corde di quel romanticismo innato che fa parte del mio carattere. I ricordi che ho di quegli anni sono sempre di una Venezia sotto la neve, avvolta dalla nebbia, di quando uscito dal Malibran mi sono perso e ho dovuto fermarmi a dormire in centro perché non c’era più la motonave per tornare al Lido. Sono tutti ricordi legati alla dimensione emotivamente “atmosferica”, all’idea di esplorare, perché ciò che trovo fantastico è il fatto che per quanto tu possa girare e conoscere la città ce ne sarà sempre un pezzo che non hai visto, che non hai conosciuto, da scoprire dietro l’angolo. Un’altra cosa che mi intriga di Venezia sono le sue enormi potenzialità: può essere modello e anche laboratorio per le sue caratteristiche climatiche, per le energie rinnovabili connesse all’acqua e alle maree, per quella che potrebbe essere un’agricoltura sostenibile nelle isole, e tutto ciò che è legato ai microorganismi della laguna. È importante considerare Venezia anche per la sua dimensione naturale, oltre che artistica.