C’era una volta un piccolo laboratorio

Fabio Fazio e la fabbrica di cioccolato
di Fabio Marzari
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Il conduttore di Che Tempo Che Fa, come si sa, non rilascia mai interviste, ma per noi ha fatto un’eccezione, ponendoci una sola condizione: «Parliamo solo di cioccolato!».

Il cacao ha un potere speciale: investe tutti e cinque i sensi ed è capace di crearne un sesto, la memoria

L’occasione era ghiotta, in tutti i sensi: poter incontrare Fabio Fazio al Fondaco dei Tedeschi e parlare con lui di cioccolato, prendendo spunto dalla storica fabbrica ligure di Varazze (Savona) sulla riviera di Ponente, la Lavoratti 1938, che il conduttore televisivo ha deciso di salvare nel 2022 dalla chiusura, rilevandola assieme ad un socio. Perciò abbiamo deciso che questa storia diventasse il nostro racconto di Natale. La Ditta Lavoratti inizia nel 1938 la sua attività sulle spiagge, trasportando in una cassetta di legno dolci e bevande da vendere ai bagnanti. Qualche anno dopo Aliberto Lavoratti apre una bottega nel centro storico di Varazze e lì comincia l’avventura del suo cioccolato. Pareva riduttivo parlare con uno dei più importanti protagonisti della scena televisiva “solo” di cioccolato, invece la passione e la capacità di raccontare questa nuova avventura imprenditoriale, in cui il profitto non sembra essere la ragione principale, si è rivelata molto piacevole e lo stile Fazio, un mix di competenza, garbo e ironia, è emerso anche nell’intervista a Fabio “rovesciato”.

Come in tutte le favole si parte dal “C’era una volta”: c’era una volta questo piccolo laboratorio di cioccolato… Come è nata questa passione e cosa rappresenta per lei il cioccolato?
C’era una volta un piccolo laboratorio di cioccolato molto significativo per tutti i bambini nati o cresciuti a Varazze come me – lì abitavano i miei nonni –, che ad ogni Pasqua e Natale ricevevano un prodotto di questa piccola azienda. C’era il profumo di quel cioccolato così desiderato che invadeva la stanza e che doveva essere consumato con parsimonia per farlo durare il più a lungo possibile. Questa piccola azienda stava per chiudere dopo il 2020 per le difficoltà causate dal Covid, che hanno messo in crisi, come ben tutti sappiamo, molte aziende. Mi è sembrato che si potesse e si dovesse fare qualcosa. Insieme a Davide Petrini, mio amico e socio, ci abbiamo provato. Occuparsi di cioccolato è la cosa forse più bella e più divertente che ci possa essere. Certamente è un modo per tornare indietro, per tornare bambini. Il cioccolato è l’unico dolce che ho sempre mangiato, che mi era consentito mangiare. Quindi è per me un sapore irrinunciabile, mi piace molto e mi riporta all’infanzia. Ancora oggi quando voglio farmi un regalo mangio del cioccolato. L’idea di avere un laboratorio di cioccolato mi piace moltissimo, devo dire la verità. Varazze è un piccolo paese della Liguria di 12.000 abitanti, dove sono nati mio papà e i miei nonni, dove io sono sempre stato da bambino. Qui si sono formati i miei ricordi d’infanzia in cui si memorizzano dei luoghi, delle luci e delle sensazioni. Pasqua era, per esempio, il momento in cui i miei genitori mi mandavano a stare dai nonni per le vacanze. Ricordo benissimo quando bambino assistevo dalla finestra della loro casa in centro al paese al passaggio della processione del Venerdì Santo: si vedevano questi Cristi che baluginavano con le luci delle candele da sotto, sembrava Goya, era pazzesco vedere lì sotto questi affreschi che si muovevano. E mentre c’era la processione, più laicamente sul mobile della sala c’era l’uovo di Pasqua, che però non si poteva toccare sino alla domenica. Era molto decorato, la Lavoratti era solita fare le decorazioni sulle uova e c’era un profumo fortissimo, un ricordo preciso che arriva dal cuore dell’ infanzia.

E quindi avete rilevato la Lavoratti…
Ho detto a Davide (Petrini): «Perché non la prendiamo noi»? Non sapendone nulla abbiamo dovuto iniziare a capire cosa avremmo dovuto fare. Siamo partiti dalla ristrutturazione del luogo fisico; abbiamo cambiato tutti i macchinari che era necessario sostituire, abbiamo cominciato a costruire l’idea che avevamo del marchio. Tutti affermano che il cibo deve raccontare, così abbiamo pensato di fare gli editori di cioccolato, ispirandoci ai libri delle edizioni Gallimard. Le nostre tavolette sono come libri e seguono la proporzione aurea. I cofanetti, composti da otto tavolette giustapposte, sono come volumi in una libreria, con tanto di segnalibro. Tutto il processo segue linee produttive essenziali e rigorose, a partire dalla scelta di non usare coloranti alimentari “sia pur buoni e belli”. Numeri differenti distinguono i diversi ripieni: a ogni cioccolatino corrisponde un numero e una legenda che permette di descrivere il gusto equivalente. A firmare ogni pezzo, poi, il Nautilus, disegnato sulla superficie lucida.

La sezione aurea o proporzione divina, il famoso 1,618…
Il logo Nautilus richiama per l’appunto la sezione aurea o costante di Fidia, o proporzione divina che dir si voglia; infatti ogni tavoletta e ogni pralina mantiene la proporzione di 1,618. Il Nautilus è diventato il simbolo dell’azienda e da quel momento l’idea è stata di una maniacale ricerca della più possibile “perfezione” del gusto. Da qui la ricerca di produttori piccoli, ascoltando i suggerimenti di Corrado Assenza, grande pasticcere di Noto e artigiano del gusto di fama internazionale, che ha consigliato: «Cerca persone buone, troverai prodotti buoni». Non so se sia poi vero fino in fondo, a volte ci sono persone cattive che fanno prodotti buonissimi e persone buone che fanno prodotti cattivi, comunque l’idea è stata quella di non rassegnarci a prendere ciò che era più comodo, ma di andare a cercare ingredienti in vari luoghi, andando fisicamente a comprarli, a conoscerli, per provare a raccontare attraverso i prodotti quello che piano piano vorremmo diventasse il cioccolato del Mediterraneo, ossia che queste tavolette racchiudessero, come pagine di libri, dei racconti. Adesso, per esempio, stiamo lavorando con il FAI; abbiamo comprato da loro le arance di un aranceto, la Kolymbethra, che hanno recuperato nella Valle dei Templi, che si chiamano “inganna ladri” perché sono una specie d’arancia molto brutta a vedersi ma molto buona a mangiarsi. Sono talmente brutte che i ladri non sono mai stati tentati dal rubarle.

Ho visto anche l’albicocca valleggina, di cui ignoravo l’esistenza.
La valleggina è una varietà rara di albicocca coltivata a Valleggia, in provincia di Savona, vicino a dove si trova la nostra azienda. È  un frutto dolcissimo, più piccolo delle normali albicocche, puntinata di rosso ed è buonissima. Le nocciole siamo andati a prenderle a Giffoni e non in Piemonte, mentre il pistacchio è quello di Bronte.

Siamo sicuri che sia proprio di Bronte? Ma quanto è grande Bronte per produrne così tanto?
In effetti è vero, bisogna stare molto attenti e siccome Bronte non è grande come il Canada, bisogna essere certi che arrivi veramente da un produttore locale. E così per noi è stato. La frutta viene essiccata direttamente in azienda: la andiamo a prendere appena raccolta, viene portata da noi, sbucciata ed essiccata istantaneamente per essere polverizzata, quindi nel giro di pochissimi giorni il frutto si trasforma in polvere che adoperiamo per i ripieni. Seguiamo il procedimento dall’inizio alla fine. Un’altra squisita eccellenza è la pesca di Volpedo nell’alessandrino, probabilmente le migliori pesche in commercio. Ora stiamo valutando i datteri di due diverse oasi. La mia vita è fatta di riunioni di altro genere, quindi l’idea di fare una videochiamata per decidere l’oasi è davvero una cosa fantastica. È un grande lusso per me, oltre i 50 anni, quello di potermi permettere un giardino di pace, di serenità, facendo qualcosa che non c’entra nulla con la mia occupazione principale. Diventa utile per relativizzare sé stessi e le cose che fai; e poi con un po’ d’orgoglio voglio dire che salvare un’azienda che sta per chiudere, in cui lavorano 14 persone, rappresenta un impegno serio e una responsabilità altrettanto forte.

Uscendo per un attimo dall’ambito delle dolcezze, cosa riempie la vita di Fabio Fazio, uomo di successo, che è riuscito a realizzare, almeno questa è la netta impressione, le cose che avrebbe desiderato fare nella sua professione?
Può suonare banale, ma l’unica risposta che riesco a dare è questa: i miei figli. Nulla è più importante e più bello per me. Sono diventato genitore oltre i quarant’anni e a quell’età, al di là della consumata retorica, c’è la consapevolezza che i figli sono la rappresentazione fisica dell’idea di futuro. Cos’è infatti il futuro? Un concetto inesistente, impalpabile, qualcosa che non vediamo. I figli invece rappresentano il futuro che puoi toccare, danno un senso vero alla tua esistenza, e più passa il tempo, quindi meno io ne ho a disposizione, più ho voglia di trascorrerlo con loro e qualunque istante condiviso con loro mi rende felice.

Passando dalle dolcezze alle amarezze, ho l’impressione che la generazione dei nati negli anni Sessanta, e naturalmente anche le successive, sia la prima dal dopoguerra in poi a vivere in questo frangente storico la sensazione, molto presente, del rischio dello sconquasso globale. Cosa abbiamo sbagliato e cosa potremmo fare per rimediare?
È una domanda troppo complessa a cui non so dare una risposta. È evidente che in questo periodo stiamo vivendo con un senso di precarietà assoluta. La colpa che abbiamo è di essere tutti complici, volontari o involontari, di un sistema che evidentemente ha scelto delle regole in cui la scala dei valori, a cui ci atteniamo, non tiene conto delle proprietà intellettualmente oneste che dovrebbero regolare i rapporti fra gli esseri umani e gli appartenenti alla stessa specie. E noi abbiamo accettato per convenienza regole che non sono quelle giuste. Difficilmente, mi pare di capire dall’esperienza della vita, ciò che conviene è anche ciò che è giusto; spesso le due cose hanno vie separate: ciò che è giusto di solito prevede delle rinunce, ciò che conviene no. Per fortuna e purtroppo siamo una generazione cresciuta in un oggettivo, crescente benessere; non abbiamo vissuto la guerra, i nostri genitori non vedevano l’ora di dimenticarla, e quindi abbiamo pensato di avere diritto solo noi e proprio noi a questo comodo benessere, vissuto senza un’idea di condivisione e con un egoismo di cui stiamo pagando ora le conseguenze. Abbiamo una visione di globalizzazione a senso unico, dove poter prendere e mai dare, e questo chiaramente non può più reggere. Mi pare ad ogni modo di capire che ancora oggi, e forse mai così come oggi, i rapporti siano regolati sempre di più dalla forza piuttosto che dalla giustezza delle cose. Viviamo in un mondo in cui sono saltate tutte le regole: se riuscissimo a ripristinarne anche solo qualcuna, semplice, avremmo svolto almeno un nostro buon compito.

Che tempo che fa: vent’anni più uno di grandi successi.
C’è la soddisfazione del lavoro svolto e di quello ancora da svolgere, sempre con lo stesso impegno e la stessa curiosità. Il piacere, l’emozione impagabile di molti incontri meravigliosi. Lo ammetto, tutto questo è davvero un grande privilegio. Che tempo che fa è un lavoro strano, perché è un programma che ti permette di conoscere e incontrare tantissime persone dalle esperienze, dai percorsi i più vari. Ogni incontro è come aver letto un libro, ti rimane sempre dentro qualcosa; da ogni incontro ti porti via un pezzo di vita che resta e che va a formare quello che tu sei il giorno dopo. In questo senso è un programma che è un tutt’uno con te e che si evolve con il tuo vissuto in divenire. Ripeto, è davvero un grande, grande privilegio poter svolgere questo lavoro.

Torno in chiusura al cioccolato, nello specifico a Corrado Assenza. Il suo Caffè Sicilia nel corso principale di Noto è un luogo dell’anima, non solo una summa di delizie. Come le è venuta l’idea di collaborare con lui?
L’idea parte da un suggerimento di Massimo Bottura. Corrado Assenza non è solo una delle figure più autorevoli e riconosciute nel mondo della pasticceria, ma è un poeta, un intellettuale che adopera gli ingredienti come uno scrittore fa con le parole. Vuole conoscere i suoi collaboratori così come le piantagioni e le coltivazioni; seleziona i pistacchi, gli agrumi e persino la salina da cui attingere il sale. È il re delle trasformazioni, riesce ad esaltare al meglio ogni prodotto. Ci ha dato un input importante all’inizio, non solo rispetto all’essiccazione, ma anche proprio rispetto alla ricerca assoluta della qualità: «La scommessa è provare a capire se in una produzione, non si può dire industriale perché non è un’industria, ma comunque in una produzione quantitativamente rilevante, si riesce a conservare l’artigianalità». Essa passa esclusivamente attraverso il lavoro manuale di chi fisicamente, come il nostro maître chocolatier Marco Ferrari, sta lì dove si sperimenta e si produce. E non si può risparmiare sulla ricerca dei prodotti. Il pregiato cacao di San José, vettore perfetto per conservare la purezza e l’autenticità dei sapori, viene lavorato con passione e semplicità per accogliere i sapori e i profumi del Mediterraneo, trasformandoli in un insieme compiuto che riesce a farsi una concreta esperienza di gusto. Questa è la nostra raison d’être!

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