Corrispondenze

Marco Petrus a Ca' Pesaro con una mostra ispirata a Carpaccio
di Mariachiara Marzari
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Milanese con casa a Venezia, Marco Petrus è protagonista a Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna della mostra Capricci veneziani, a cura di Michele Bonuomo, organizzata da MUVE in collaborazione con M77 Gallery di Milano.

Le opere esposte prendono spunto dalle linee, rigorosissime e misurate, delle tipiche braghe o calze veneziane indossate da certe figure che animano le scene dei teleri di Vittore Carpaccio e di Giovanni Mansueti alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Ma l’arte e soprattutto la visione di Petrus è libera e personalissima, guidata da richiami e suggestioni dove l’emozione è l’elemento trainante, ma la resa è rigorosa. L’iniziale segno marcato e insistito, retaggio della sua formazione ed esperienza come incisore, assume successivamente una forma più ritmica e architettonica – famosissima la sua serie di architetture “archetipo-mitologiche” di Milano – , che diviene a poco a poco geometrica, dove il segno va scomparendo per lasciare spazio a un gioco sempre più rigoroso e lineare di colori scanditi da linee chiare e ben definite e da campiture piatte, in una ricerca di essenzialità e di linearità della composizione che via via caratterizza la sua ricerca, fino a giungere alla crescente stilizzazione della forma e di fatto all’astrazione. Il colore è protagonista assoluto, segno identitario del suo essere artista, nonché elemento di continua sperimentazione e indagine spaziale. Il ciclo di opere in mostra si compone di ventisei tele di medio e grande formato, affiancate o sovrapposte, in un dinamico susseguirsi di rimandi, scambi, allusioni e citazioni che avvolgono l’osservare in un gioco incrociato oggettivo e soggettivo, che non lascia indifferenti proprio perché penetra direttamente nell’esperienza di ognuno, in bilico tra il visibile e il vissuto. Abbiamo incontrato Marco Petrus in mostra, nelle sale Dom Pérignon di Ca’ Pesaro, in un dialogo mattutino libero, ricco di suggestioni, di profondità e leggerezza, stupore e consapevolezza, in un perfetta dimensione contemporanea dell’arte.

Da dove parte l’idea di realizzare un ciclo pittorico ispirato alla pittura di Vittore Carpaccio?
Intorno al 2015 stavo terminando un progetto per la città di Napoli, poi esposto nella mostra Matrici alle Gallerie d’Italia nel 2017 sempre a Napoli, in cui avevo scelto come soggetto architettonico anziché un itinerario urbano come già proposto prima in altre città, per esempio Trieste o Milano, un insediamento specifico. Avevo scelto in particolare le Vele di Scampia, la cui architettura mi ricordava da vicino il progetto dell’Unité d’Habitation (Cité Radieuse) di Le Corbusier a Marsiglia.
Da poco era terminata la mia mostra Atlas alla Triennale di Milano, era il 2014, una sorta di mini-antologica non cronologica, una raccolta di punti di vista diversi, immagini e scorci architettonici che avevo dipinto negli anni precedenti. Dopo il successo di questa mostra a Milano, e mentre stavo elaborando il progetto di Napoli, sentivo sempre più urgente la necessità di compiere un passo ulteriore nel mio percorso creativo; volevo sviluppare il lavoro che avevo svolto fino ad allora tuttavia portandolo su un nuovo livello espressivo. Casualmente – spesso le cose capitano così, anche se penso le stessi covando da anni – questa necessità è diventata reale proprio in quel momento. Non avevo potuto vedere dal vero le Vele di Scampia; lavoravo con immagini satellitari tratte da Google Earth e altre trovate sempre sul web, tuttavia facevo fatica a interpretare le architetture per il fatto che apparivano molto fatiscenti, degradate e non avevo alcuna intenzione di restituire quell’atmosfera. Il mio voleva essere un discorso esclusivamente artistico. Ho iniziato così a stilizzare ulteriormente la mia pittura, già di per sé fortemente stilizzata, quasi astraendo la forma reale. Mi ero messo in mente di realizzare anche dei papiers découpés alla Matisse, dei collage con delle carte colorate da me. Durante la preparazione di queste carte colorate avevo accostato delle campiture di colori diversi uno a fianco all’altro. Era un grande foglio di carta dipinto che poi avrei ritagliato, tuttavia la composizione generale e gli accostamenti in particolare apparivano effettivamente ottimi e funzionavano. Proprio in quel momento è scattata in me l’idea di poter accostare a un dipinto di immagine, dove l’architettura era ancora riconoscibile seppur più stilizzata rispetto alle mie abitudini, un’interpretazione di esso in senso pittorico. E così sono nate delle sorta di dittici, modalità che non avevo mai sperimentato prima, in cui reinterpretavo la tavolozza che avevo utilizzato nel quadro di architettura portando l’immagine fuori dalla forma stessa, ricreando una composizione puramente geometrica. Quadri che riprendevano le linee delle architetture trasformandole in strisce di colore determinate da ritmo e alternanza: il volume ora era diventato colore. Questo è stato il mio primo passaggio verso l’astrazione. Tuttavia non mi sembrava plausibile spingermi all’improvviso e completamente verso l’astrazione geometrica; decisi allora di accostare due quadri, uno più grande architettonico e l’altro più piccolo astratto, creando di fatto dei dittici. Per arrivare finalmente al Carpaccio, che conoscevo e avevo visto più volte alle Gallerie dell’Accademia venendo io spesso a Venezia, la mia attenzione non era mai caduta sui dettagli decorativi delle braghe o calzamaglie dei personaggi presenti nei grandi teleri del Maestro e in quelli di Giovanni Mansueti. Dopo il progetto delle Vele di Scampia, l’occhio è ritornato a focalizzarsi sui lavori del grande artista rinascimentale, guardando in modo nuovo le sue magnifiche composizioni. Mi sono reso conto che poteva esserci terreno fertile per un approfondimento interessante, per un personalissimo e divertente percorso, un gioco di accostamenti di colore, un capriccio appunto, da cui il titolo della mostra in corso a Ca’ Pesaro, Capricci veneziani per l’appunto.

Marco Petrus Capricci Veneziani Ca' Pesaro
Marco Petrus, Capriccio n.5 (2016) olio su tela

La scelta del titolo è una sorta di gioco quindi, quasi una provocazione. Ci può spiegare meglio questa scelta?
Ho inteso il capriccio non nel senso musicale del termine e nemmeno come richiamo o rimando a quelli famosi di Goya, ma nel senso propriamente letterale del termine, ovvero una voglia improvvisa di sviluppare qualcosa di nuovo, di inesplorato. Poteva essere il mio primo progetto completamente aniconico dopo le Vele di Scampia ed ero curioso di vedere dove sarei potuto arrivare.

Quali, se vi sono, le affinità con questo straordinario interprete della pittura veneziana?
Nelle mie intenzioni non vi era l’idea stretta di evocare il Rinascimento veneziano. Il Carpaccio in particolare, ma anche gli altri grandi Maestri di quella irripetibile stagione, sono stati certamente un punto da cui sono partito per poi sviluppare la mia ricerca. Nello specifico qui ho isolato, fotografato e studiato nel dettaglio le calze dei personaggi ritratti da Carpaccio nei suoi magnifici teleri per poi ricomporle, restituendole attraverso una mia personale visione astratta. Ho scoperto che colori e forme delle calze distinguevano i personaggi per appartenenza alle diverse Compagnie della calza, gruppi di giovani nobili veneziani famosi per i loro balli, conviti, mascherate, rappresentazioni teatrali, regate, pompose cavalcate nella Venezia del XV e XVI secolo. Ho appreso anche molti aneddoti interessanti, tra cui quello in cui Marcel Proust, in un passaggio della Recherche, descrive Albertine Simonet narrando che la sera prima di lasciarlo aveva addosso un mantello di Fortuny, che a sua volta aveva studiato attentamente Carpaccio e “copiava” dagli antichi Maestri veneziani, che lui poi aveva riconosciuto essere uguale a quello indossato da uno dei personaggi di Carpaccio nel dipinto Il patriarca di Grado che esorcizza un indemoniato (Gallerie dell’Accademia).
L’arte nasce dall’arte, l’ispirazione proviene dall’arte. Nel mio lavoro ho sempre avuto un approccio istintivo; la pittura per me è sempre concettuale ma in una singolare accezione: non parto mai da un concetto da rappresentare, parto da visioni istintive, da emozioni. Vedo delle case e cerco di ricomporle, di farle mie. Così come Mariano Fortuny vide Carpaccio e riprodusse il suo mantello, Vittorio Zecchin creò vasi ispirati ai dipinti di Paolo Veronese, Josef Albers in Messico fotografò le piramidi precolombiane vedendo in esse l’astratto. Suggestioni, le definirei, sì!
Nella mostra di Napoli concludevo il percorso espositivo dedicato alle Vele con un’opera che era una sorta di lesena composta da tanti quadretti a righe orizzontali. Queste stesse piccole opere se girate in senso verticale richiamavano esattamente le calze del Carpaccio. Allo stesso tempo mi venivano in mente anche i lavori di Donald Judd oppure la Colonna infinita di Brancusi. Volevo sviluppare l’idea di un repertorio di forme e di colori che poteva andare all’infinito: Brancusi l’ha espressa sul volume, io l’ho perseguita con il colore.

Come è nata e come si è poi concretizzata l’ideazione delle opere che ora sono protagoniste della mostra a Ca’ Pesaro?
Quando lavoro cerco sempre di appartenere allo spazio espositivo e, quindi, cerco di adattare le mie opere cercando di creare un progetto unico in dialogo vivo con lo spazio che lo accoglie. Insomma, un’idea di lavoro site-specific a tutti gli effetti. I quadri più grandi di questa mostra, che occupano la parte bassa delle pareti, sono stati realizzati tutti nel 2016. Allora non sapevo ancora dove li avrei esposti. Tuttavia con Michele Bonuomo, curatore del progetto, abbiamo pensato subito a Venezia, sottoponendo al MUVE l’idea della mostra. È stata subito accolta, identificando Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna quale contesto ideale in cui realizzarla.
Quando ho visitato le sale Dom Pérignon, due grandi stanze dalle pareti molto alte, mi sono reso subito conto che praticamente avevo già riempito lo spazio con la serie di 14 quadri di grandi dimensioni realizzata in precedenza. Mi è venuta l’idea di riproporre anche in questo contesto i dittici che avevo progettato per la mostra di Napoli, questa volta a sviluppo verticale. La parte alta della mostra, quella dove trovano posto i dipinti di dimensioni più piccole, è stata quindi da me realizzata nel 2019, tre anni dopo i grandi dipinti. A lavori conclusi tutto pronto per essere esposto, la mostra è infine stata rinviata prima per l’Aqua granda e poi per la pandemia.
A distanza di tre anni il mio lavoro ha avuto così uno sviluppo geometrico ulteriore. Nel realizzare la seconda parte dei dittici ho ripreso il quadro sottostante non pensando più a Carpaccio, ma ai colori utilizzati precedentemente, inserendo variazioni minime di ritmo sia nel colore che nelle forme. Inoltre, tra le opere del 2016 e quelle del 2019 vi sono ora altri lavori realizzati in contesti diversi – per esempio un murales per un’abitazione privata a Milano –, che in qualche modo hanno anch’essi influenzato la serie del 2019. Questi scarti e variazioni sono sempre legati a passaggi creativi del mio personale percorso, momenti che inevitabilmente segnando in maniera incisiva tutte le mie opere. Sono elementi non così evidenti, eppure per me decisamente significativi.

Il rigore della linea non smorza, anzi amplifica, la sensazione avvolgente del colore creato dall’insieme delle opere, che è certamente dominante. La Venezia del Rinascimento è la culla del colore: si sente in questa direzione in qualche modo un epigono?
In realtà cerco sempre di non ingabbiarmi in concetti o regole che possano limitare la mia libertà di espressione creativa. Non inseguo modelli, ricerco modi. Per fare altri rimandi all’arte, perché io gioco sempre con queste suggestioni, nel realizzare la serie del 2019 ho ad esempio pensato alle estroflessioni di Agostino Bonalumi, che realizzava delle sagome dietro le tele per creare effetti spaziali. Mi sono divertito a ricreare quell’effetto in maniera esclusivamente pittorica attraverso il colore, un effetto optical con zone in luce e zone in ombra. Potevo creare delle composizioni più corrette dal punto di vista prospettico, invece ho cercato volutamente di realizzare forme sghembe. Non c’è mai una forma uguale, anche i colori cerco di variarli sempre. C’è chi lavora seguendo la successione di Fibonacci o la teoria del colore, che certamente è bene conoscere; tuttavia per me diventano un limite alla libertà creativa.

Quale, dunque, il suo iter creativo?
Raramente faccio dei bozzetti e delle prove colore. Lavoro direttamente sulle dimensioni reali del dipinto con un disegno a matita iniziale per poi dipingere a olio magro, non materico. Tendo a fare tinte piatte. In questo caso ho iniziato a fare delle prove su carta con altre proporzioni, riprendendo le singole parti in opere diverse.

La sua Venezia.
Per me è sempre un ritorno. Ho un legame affettivo speciale con la città. Mio padre, Vitale Petrus (Kiev, 1934 – Milano, 1984), ha studiato all’Accademia di Belle Arti con Bruno Saetti ed è stato un protagonista della scena artistica lombarda degli anni Sessanta e Settanta. Era molto amico di Vittorio Basaglia e Cencio Eulisse, frequentava tra gli altri Alberto Gianquinto, Fabrizio Plessi e Lucio Andrich, per cui il legame con Venezia è sempre stato molto forte. A Ca’ Pesaro ci sono alcune sue opere; vinse infatti diversi premi alla Bevilacqua La Masa. Per due anni la mia famiglia ha vissuto a Venezia, a San Basegio, ero molto piccolo. In seguito ci siamo trasferiti a Sesto San Giovanni e poi a Milano.
Mio padre purtroppo morì giovane, a cinquant’anni, quando io ero iscritto ad Architettura a Milano. Avevo fatto il Liceo artistico e mi ero formato come apprendistato proprio nelle stamperie d’arte a Milano. Non potendo trasferirmi a Venezia, Vittorio Basaglia mi regalò il primo torchio e mi avviò all’apertura di una mia stamperia a Milano, alla quale contribuirono anche i colleghi di mio padre, il quale aveva insegnato al Liceo Artistico, frequentandola e commissionandomi molti lavori. Inizialmente non pensavo di fare il pittore, ma avendo a disposizione l’attrezzatura ho iniziato a incidere. Ci sono voluti tanti anni per vedermi nei panni di un artista, ma i riconoscimenti nel tempo sono arrivati e la strada si è fatta progressivamente chiara. A professione avviata, avevo un progetto su Trieste che mi portava ad andare regolarmente avanti e indietro da Milano. Allora decisi di prendere un appartamentino a Venezia: erano 14 anni fa, l’appartamento c’è ancora e continuo a venirci più volte che posso.

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