Direzione obbligata

Intervista a Giulia Foscari, fondatrice degli studi di architettura UNA e UNLESS
di Mariachiara Marzari
trasparente960

Fondatrice dello studio di architettura UNA e del suo alter ego UNLESS, Giulia Foscari ci parla quanto sia urgente riappropriarsi della dimensione etica e politica della disciplina architettonica.

Prima ancora di essere un architetto, è una cittadina (per nascita e per scelta) di Venezia, una città unica per bellezza e architettura, ma allo stesso tempo fragile e sensibile, che forse prima di tutte le altre città subisce quotidianamente, tangibilmente le criticità derivanti dalla crisi ambientale e climatica. Un esempio unico ed emblematico che in qualche modo è il rovescio della medaglia dell’Antartide, il “settimo” continente anch’esso fragile e conteso da cui dipende la sopravvivenza globale. Giulia Foscari ha percorso la distanza che separa Venezia dall’Antartide colmandola di interrogativi, ricerche, esperienze, soluzioni e progetti, al confine labile tra disciplina e attivismo. È con questa coscienza, determinazione e convincimento che ci spiega quanto sia urgente riappropriarsi della dimensione etica e politica della disciplina architettonica per partecipare alla costruzione di un futuro sostenibile.

Nata a Venezia, al tempo la più giovane iscritta all’Ordine degli Architetti in Italia, fondatrice dello studio di architettura UNA e del suo alter ego UNLESS, ha lavorato in grandi studi internazionali quali Zaha Hadid Architects, Foster & Partners e OMA/AMO di Rem Koolhaas. Cosa l’ha spinta a fare esperienze così importanti? E quale di questi architetti l’ha influenzata maggiormente?
La curiosità. Un profondo desiderio di capire e di imparare ad osservare da prospettive profondamente diverse quella che Buckminster Fuller ha chiamato la nostra “Spaceship Earth”, coltivando un atteggiamento critico che secondo me è essenziale sia per formare un pensiero architettonico, che per affrontare qualsiasi progetto. Tra gli architetti che lei ha annoverato con cui ho avuto il privilegio di collaborare, senza dubbio Rem Koolhaas è stato, ed è tuttora, per me un riferimento molto importante.

Speak Up For Antarctica Now, campagna di sensibilizzazione urbana lanciata da UNLESS, Berlino, Maggio 2022 – Courtesy of UNLESS © Louis De Belle

Partiamo da UNLESS, una piattaforma no-profit che supera le barriere della scienza e dei generi per rappresentare un sapere universale e condiviso su problemi d’importanza globale. Cosa si intende comunicare con il termine UNLESS e come il risultato del vostro progetto pilota, Antarctic Resolution, costituisce ora la base di una reale azione di tutela dell’Antartico in particolare e del cambiamento climatico globale più in generale?
UNLESS, in italiano, si traduce in “a meno che”. È un termine che trasmette un senso di urgenza: invoca la necessità di agire immediatamente per scongiurare che qualcosa di grave si avveri. Al contempo è intriso di ottimismo, della coscienza che l’azione – individuale e collettiva – ha il potenziale di invertire la rotta su «l’autostrada che porta all’inferno climatico» (per citare l’espressione del Segretario Generale delle Nazioni Unite alla recente assemblea di COP27, tenutasi a Sharm El Sheik). Sulla base di questo convincimento ho fondato UNLESS, un “agency for change” interdisciplinare con cui ci impegniamo ad assumere le responsabilità sociali che la professione dell’architetto dovrebbe sempre fare proprie, coscienti che l’industria in cui siamo coinvolti contribuisce al 40% delle emissioni e determinati a lavorare per garantire la difesa della giustizia inter-generazionale. La missione di UNLESS è quella di catalizzare l’attenzione globale sui Beni Comuni dell’Umanità, ovvero territori estremi quali l’Antartide, l’Oceano, l’Atmosfera e lo Spazio, che appartengono all’umanità intera ma che, essendo privi di popolazioni indigene, non hanno una loro circoscrizione che possa rivendicare la definizione di una governance appropriata che ne garantisca la salvaguardia. Con il nostro primo progetto, Antarctic Resolution, ci siamo prefissati di mettere in luce il “problema antartico”, che è trascurato dalla coscienza collettiva e in parte sottaciuto da chi il sapere lo detiene per soddisfare interessi geopolitici, ma che deve essere invece urgentemente affrontato.

La ricerca è un elemento fondativo della sua pratica come architetto. Una passione che l’ha portata ad avere cattedre universitarie sia a Hong Kong University che all’Architectural Association di Londra, e che si è poi espressa anche attraverso la pubblicazione di importanti volumi, tra cui appunto Antarctic Resolution, che recentemente è stato premiato dalla Commissione Europea. Qual è il messaggio chiave racchiuso nelle mille pagine di questo libro e come si è evoluto il progetto?
Antarctic Resolution è un libro scritto a 300 mani. Sono infatti 150 gli esperti mondiali multidisciplinari che hanno collaborato in questo sforzo collettivo finalizzato a costruire un’immagine ad alta risoluzione del nostro settimo continente – un territorio conteso che rappresenta il 10% della superficie terrestre, il 70% dell’acqua dolce della Terra e il 90% dei suoi ghiacci. Il volume enciclopedico enfatizza il ruolo dell’Antartide nell’ecosistema globale, evidenziandone il potenziale distruttivo (in uno scenario in cui lo scioglimento dei suoi ghiacciai proceda al ritmo attuale, pari al volume di 200 piscine olimpioniche al minuto, rischiando di sommergere le coste del mondo intero) e costruttivo – in quanto l’Antartide rappresenta il più importante archivio planetario della storia climatica del nostro Pianeta, offrendo dati scientifici che sono essenziali per la definizione di politiche ambientali. Ma Antarctic Resolution – da poco accessibile in versione integrale online sulla piattaforma Open Access che abbiamo lanciato nel convincimento che si debba perseguire una democratizzazione dei dati – non si prefigge ‘solo’ di produrre e diffondere sapere sull’Antartide, ma deve anche essere intesa come una call to action, in quanto delinea “risoluzioni antartiche” a mio giudizio improrogabili.

Elements of Venice, pubblicazione – Courtesy of UNLESS © Delfino Sisto Legnani

Ovvero? Può farci qualche esempio di cosa concretamente si intenda quando si parla di “risoluzioni antartiche”?
In primis la necessità di promuovere un cambio di paradigma radicale nella gestione dell’Antartide che porti alla modifica degli statuti di governance del continente, imponendo agli stati membri del Trattato Antartico (sottoscritto nel 1959) l’obbligo di far confluire gli esiti delle loro ricerche scientifiche e i dati raccolti nel continente in un Antarctic Data Center transnazionale accessibile a studiosi del mondo intero. Credo davvero che nella condizione di poli-crisi che stiamo vivendo la definizione di una governance transnazionale per i Beni Comuni dell’Umanità sia un imperativo morale verso le future generazioni cui non possiamo, e non dobbiamo, sottrarci. Con lo stesso spirito di collaborazione e condivisione globale, ritengo sia urgente definire un masterplan per il continente che promuova la realizzazione di stazioni scientifiche internazionali, arrestando il processo in corso che induce la proliferazione di stazioni-ambasciate che antepongono interessi geopolitici a interessi scientifici, che sono gli unici essenziali da esercitare per la sopravvivenza delle specie, umane e non, del Pianeta.

Come concilia il lavoro di UNA, lo Studio impegnato ad assolvere commissioni pubbliche e private, con le azioni di UNLESS?
Beh, umanamente è un’impresa piuttosto intensa in quanto sono due realtà totalizzanti cui vorrei dedicare più tempo di quanto ne abbia a disposizione. Ma da incurabile ottimista quale sono e da amante delle sfide credo vivamente che debbano essere perseguite entrambe, obiettivo possibile solo grazie all’incessante lavoro del fantastico team di colleghi con cui ho la grande fortuna di lavorare, tra i quali ci tengo in particolar modo a ricordare Federica Zambeletti. Ideologicamente, per quanto UNA e UNLESS siano per natura due organizzazioni diverse, sono intrinsecamente legate dal convincimento che sia urgente riappropriarsi della dimensione etica e politica della disciplina architettonica per partecipare alla costruzione di un futuro sostenibile. Questo implica, per UNA, la scelta consapevole di lavorare prevalentemente su progetti di preservation, ovvero interventi anche radicali sul patrimonio costruito esistente.

Antarctic Resolution, mostra di UNLESS esposta nel Padiglione Centrale della Biennale di Venezia nel 2021 – Courtesy of UNLESS © Delfino Sisto Legnani

A proposito di interventi radicali, lei è capo progetto della Fondazione Anish Kapoor qui a Cannaregio. Può parlarci di questo straordinario intervento su uno storico edificio da molti anni abbandonato quale è Palazzo Manfrin e delle ambizioni progettuali della Fondazione del grande artista anglo-indiano?
Il palazzo scelto da Anish Kapoor come sede del Manfrin Project è il risultato di uno processo metamorfico durato cinque secoli. Concepito dapprima come un edificio gotico di ridotte dimensioni, cui sono stati progressivamente annessi volumi limitrofi, il palazzo è stato trasformato nel corso del ‘700 dall’architetto Andrea Tirali, il quale ha introdotto nella fabbrica antica due grandi vuoti (un inaspettato salone a doppia altezza e un cortile alla romana) e ha anteposto all’edificio una facciata protorazionalista. Così è apparso al pubblico colto della Galleria di Girolamo Manfrin il palazzo prima di cadere nell’oblio collettivo per un rapido susseguirsi di proprietari, con conseguenti anni di abbandono. Quando siamo stati chiamati a progettare entro queste mura un laboratorio di sperimentazione ed esposizione d’arte per Anish abbiamo deciso di avviare una nuova fase di metamorfosi, che al contempo lasciasse in evidenza le tracce di degrado della storia del palazzo introducendo delle innovazioni architettoniche che possono assecondare le particolari esigenze espositive di questo grande artista contemporaneo, favorendo il dato della flessibilità nella programmazione. A tal fine, come Tirali, abbiamo lavorato per sottrazione, liberando il piano terreno da ogni superfetazione o impedimento al fine di creare una permeabilità con il tessuto urbano circostante, così da indurre i cittadini a ritenere questi spazi come elementi qualificanti della loro quotidianità, violando così la natura ermetica con cui il palazzo si è presentato alla città per secoli. Per enfatizzare la porosità del piano terreno e favorire l’accesso di opere di grandi dimensioni abbiamo introdotto anche una galleria autonoma di inaspettate proporzioni e rafforzato la portata della pavimentazione, connettendo questo intervento alla realizzazione di un sistema di protezione dalle cosiddette acque alte fino a una quota di 2,10 metri sul medio mare. Raggiunti questi primi obbiettivi abbiamo allestito una mostra nel cantiere in occasione della Biennale Arte 2022 – un’esposizione in cui abbiamo voluto esaltare la condizione di work in progress dell’edificio – e ci stiamo accingendo ora a riavviare il cantiere e procedere alla realizzazione del progetto per piani successivi al primo.

Il processo di metamorfosi sembra connotare in maniera spiccata il suo fare architettura, non a caso è questo uno dei temi ricorrenti in Elements of Venice, il libro che ha pubblicato nel 2014 e che di fatto può essere letto come una sorta di visione/versione contemporanea di The Stones of Venice di John Ruskin. Come è nata l’idea di questo catalogo di elementi fondamentali dell’architettura della città e quali risvolti operativi offre per una migliore comprensione della città stessa?
L’idea di analizzare singolarmente gli elementi fondamentali dell’architettura è stata proposta da Rem Koolhaas, che ha dedicato a questo tema il Padiglione Centrale della Biennale Architettura 2014. All’epoca vivevo a Buenos Aires in quanto ero responsabile della piattaforma sudamericana di OMA/AMO e collaboravo strettamente con Rem quale membro del suo curatorial team per la Biennale. In quel contesto mi era parso interessante testare la sua tesi a scala urbana, prendendo come caso-studio la città che ospita la Biennale stessa, Venezia. Confesso che questa intuizione era anche dettata da un desiderio intimo di studiare finalmente in modo sistematico l’architettura della mia città natale, da cui mi ero allontanata a 17 anni per coltivare la mia indipendenza. Elements of Venice è dunque stato concepito in questo contesto, ma ben presto ha rivelato il suo potenziale in quanto ha favorito una lettura unica della città, dimostrando quanto scelte architettoniche introdotte nella Serenissima nei secoli fossero sempre una trasposizione diretta, fisica direi, di volontà politiche, ideologiche, sociali e non fossero solo frutto di una ricerca formale come si potrebbe pensare. La ricerca ha svelato anche la natura metamorfica di Venezia, una città all’avanguardia, liberale, che è stata per secoli un epicentro culturale, la cui forma urbana e architettonica ha subito profonde trasformazioni. Una lettura quasi forense, anatomica dell’architettura di Venezia non solo permette di leggere la storia della Repubblica, per ricollegarmi a Ruskin, sulle sue pietre, ma soprattutto trasmette, quantomeno a me, un sentimento di ottimismo che legittima architetti contemporanei a immaginare un futuro per Venezia che esuli dalla mera immagine di città-museo a cui viene spesso associata la città lagunare.

Antarctic Resolution, pubblicazione e piattaforma Open Access – Courtesy of UNLESS © Delfino Sisto Legnani

La sua presenza con svariati progetti alle molte Biennali di Architettura di Venezia sancisce un suo legame stretto con la più importante Istituzione culturale veneziana e probabilmente italiana. C’è in vista una nuova sua presenza o collaborazione?
In occasione dell’imminente Biennale curata da Lesley Lokko sono stata invitata a contribuire ad un Evento Collaterale promosso dalla New European Bauhaus (NEB). Si tratta di una conferenza di due giorni che si terrà allo IUAV alla presenza di Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea. In questo contesto contribuirò alla tavola rotonda The Global Commons and Climate Change: Venice reporting from the front e a un laboratorio trimestrale dal titolo Radical NEB Lab, che culminerà in proposte progettuali sviluppate da studenti multidisciplinari che verranno esposte al New European Bauhaus Festival nel 2024.

Si è appena trasferita a Venezia con tutto il team di UNA e UNLESS dopo aver trascorso 25 anni tra Londra, Hong Kong, Buenos Aires e Amburgo. Cosa l’ha spinta in maniera particolare a ritornare a vivere e a lavorare nella sua città natale? Quale ruolo riveste Venezia nel suo DNA esistenziale e professionale? Quale oggi la sua idea, la sua visione di una città a un tempo ingessata nella sua dimensione univocamente turistica e oggetto di un profluvio di ipotetici progetti di riqualificazione fermi sulla carta?
Venezia è una città imprescindibile. Se si ha avuto la fortuna, come ho avuto io, di nascere qui e di essere stata educata a riconoscere in un quadro, in un’architettura, o semplicemente in un dettaglio il pensiero ideologico, culturale e politico di una Repubblica che sola, nello scenario mondiale, promuoveva e difendeva i valori di giustizia, inclusione, libertà di parola e stampa che ancora oggi tristemente non possiamo dare per assodati, è inevitabile poi che uno risenta forte il “richiamo della foresta”. E il riferimento al testo di Jack London non è certo casuale, poiché l’unicità di Venezia, e dunque il suo potere catalizzatore, non è riconducibile ‘solo’ ai suoi artefatti millenari che incorporano valori etici imprescindibili, ma anche al suo essere indissolubilmente compenetrata dalla natura e compatibile con essa, immersa com’è nelle acque salmastre della laguna da secoli. Questa capacità intrinseca di Venezia di coesistere con l’ecosistema lagunare senza metterne a rischio l’esistenza – con un approccio che oggi si può riscontrare quasi esclusivamente in insediamenti indigeni da cui possiamo solo imparare – è un aspetto su cui è il caso ancora e più che mai di riflettere attentamente. Ma questa sua condizione la rende unica quanto vulnerabile. In modo non dissimile da tutte le altre aree costiere mondiali (dalle Marshall Islands a città come Giacarta), l’esistenza futura di Venezia è minacciata dal cambio climatico antropogenico. Ma contrariamente ad altri insediamenti costieri globali che rischiano di essere sommersi da decine di metri d’acqua (basti pensare che uno scioglimento dell’Antartide porterebbe ad un innalzamento del medio mare globale di 60 metri) Venezia ha un’ineguagliabile capacità mediatica che dobbiamo assolutamente saper mobilitare verso finalità giuste. Credo pertanto che, oltre a continuare a investire culturalmente (e con incentivi finanziari) affinché si insedino in città fondazioni d’arte, Venezia – barometro del cambio climatico per eccellenza – dovrebbe diventare il centro mondiale per gli studi sul cambio climatico, creando infrastrutture transnazionali che catalizzino qui in laguna le migliori menti interdisciplinari del settore in grado di raccogliere efficacemente i dati scientifici globali essenziali per informare improrogabili politiche ambientali. Un progetto di questa natura, che se visto dalla prospettiva europea è perfettamente allineato alle ambizioni espresse nel Green Deal, permetterebbe a Venezia, storicamente “regina dei mari”, di essere ancora una volta un riferimento mondiale a riguardo, ma non più in quanto temuta Repubblica con aspirazioni di dominio, bensì in qualità di ‘protettrice’ di quegli stessi mari – oggi surriscaldati, acidificati, con ridotta biodiversità – e, con essi, promotrice della salvaguardia del nostro intero Pianeta.

 

Immagine in evidenza: L’architetto Giulia Foscari sotto la porta di Brandeburgo a Berlino durante la campagna di sensibilizzazione urbana Speak Up for Antarctica – Courtesy of UNLESS © Louis De Belle

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