La simmetria dei desideri

François Xavier Saint Pierre presenta The Spider and the Bees
di Mariachiara Marzari
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Le opere di François Xavier Saint Pierre, pittore canadese ora residente a Venezia, sono per la prima volta esposte a Venezia nella mostra personale The Spiders and the Bees, dal 4 al 31 luglio presso la Fondazione Marchesani.

Influenzate dalla pittura modernista e dai tropi classici e romantici, molte opere ora in mostra sono state create durante e a seguito della residenza dell’artista presso Villa Medici, Accademia di Francia a Roma.
Il titolo della mostra richiama la favola satirica di Jonathan Swift L’ape e il ragno scritta nel 1704, che si situa nel più ampio contesto del dibattito storico noto come la Querelle des Anciens et des Modernes (disputa degli Antichi e dei Moderni), avviata in Francia da una cerchia di autori e artisti francesi presso la corte di Luigi XIV. Il dibattito su come guardare alla storia è stato declinato in diversi modi nel corso dei secoli, toccando tutti gli aspetti del pensiero intellettuale, artistico e politico europeo. Tutto ciò serve da riferimento per François Xavier Saint Pierre nella sua esplorazione di forme artistiche passate, della nozione di progresso e del significato di essere contemporanei.

La caduta (pandemia) e la rinascita (il riscatto delle idee e della creatività), come le sue opere restituiscono tutto questo nella mostra The Spiders and the Bees?
La pandemia ha decisamente accelerato la mia decisione di trasferirmi a Venezia nell’estate del 2020. Ho passato il primo lockdown in Canada, dove abitavo, ed è stato sconvolgente. Sono stato fortunato perché non mi sono ammalato, ma tutta l’attività professionale relativa alle mostre è stata rimandata indefinitamente. Subito dopo il mio trasferimento a Venezia c’è stato un secondo lockdown: ho vissuto in una Venezia vuota e l’ho poi vista ritornare alla vita. Durante questi lunghi mesi in cui tutto era chiuso ho disegnato e dipinto molto e ho pensato a cosa resta della cultura, alla persistenza di luoghi comuni storici, alle tradizioni pittoriche e a questioni creative imposte dal peso della storia. Questi temi, assieme ad alcune idee di rinnovamento, hanno fatto eco nella mia esperienza personale negli ultimi anni e si ritrovano oggi nella mia mostra, The Spider and the Bees, la prima che faccio a Venezia. Sono molto curioso di vedere come il mio lavoro sarà recepito in questo nuovo contesto.

Antico e moderno, bellezza e classicità, figurativo e astratto, invenzione e originalità, una contrapposizione filosofica di grande fascino. Come la sua ricerca artistica si pone tra l’universalità dell’arte e l’individualità contemporanea?
La mostra The Spider and the Bees è stata ispirata dalla Querelle des Anciens et des Modernes, che è nata nella seconda metà del Seicento in Francia e si è poi diffusa in vari contesti artistici e politici in Europa. La mostra prosegue anche la mia esplorazione della prima ondata modernista e dei capisaldi della classicità e del romanticismo. Il titolo si riferisce a una satira di Jonathan Swift sulla Querelle: c’è chi considera la tradizione la base della creazione artistica e chi preferisce l’innovazione e la novità. Secondo Swift, le due fazioni si possono rappresentare come insetti: gli antichi sono le api, che colgono materia da vari fiori e la usano per creare qualcosa di bello, e i moderni sono i ragni, che producono qualcosa di nuovo apparentemente dal nulla. Per me questo punto di riferimento aiuta a comprendere le forme artistiche e le nozioni di progresso, a esaminare il valore del presente e l’utilità del passato e cosa possiamo imparare da esso. Come riusciamo a dare struttura e significato al presente? E come possiamo riferirci al valore della storia? Ad ogni modo, non ci sono né ragni né api nella mia mostra.

Mi piace che la pittura dia la possibilità di mantenere una certa ambiguità. Io lavoro con immaginazione e memoria, il risultato ha ben poco a che fare con un immaginario mediato

Quali le basi del suo pensiero artistico?
Uno dei temi principali del dipingere, per me, è concepire un’immagine che sia al tempo discreta e notevole. Mi interessano i modi di vedere che trascendono i filtri che normalmente usiamo per guardare il mondo. Pare che Monet abbia detto: «Per vedere veramente devi dimenticare il nome della cosa che stai guardando». Il poeta francese Stéphane Mallarmé disse: «Dare un nome a un oggetto significa sopprimere tre quarti del piacere di una poesia».
Mi piace che la pittura dia la possibilità di mantenere una certa ambiguità. Io lavoro con immaginazione e memoria, il risultato ha ben poco a che fare con un immaginario mediato. In particolare evito l’immaginario mediato del tipo che normalmente si nota nella fotografia: tagli forzati e contrasti troppo accentuati.
La pittura moderna (dal primo Settecento al tardo Novecento) ricercava il sé mediante l’analisi del processo percettivo. La serialità del mio lavoro è una conseguenza di questa tradizione: la ripetizione di un motivo è una dichiarazione dell’indeterminatezza intrinseca nella nostra conoscenza degli oggetti e dell’aspetto che debbano avere. Per quanto un oggetto possa essere familiare, il suo aspetto non è mai fisso e predeterminato.
Quello che creo è un dialogo tra pittori e la storia della pittura. Il mio lavoro assimila varie influenze artistiche, sia storiche che moderne (da Chardin, ai Tiepolo, a Guston, Morandi, de Chirico e Savinio, tra gli altri), ma allo stesso tempo credo che l’atto di dipingere per me rappresenti un desiderio di sorprendere me stesso con qualche immagine che non è mai stata vista prima.

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