Il domani già scritto

La Biennale Musica di Lucia Ronchetti, ricerca attiva di nuovi teatri musicali
di Andrea Oddone Martin
trasparente960

Out of Stage, titolo di quest’anno, vuole indicare quell’ampia regione creativa che comprende il teatro frutto di ibridazioni impegnate. Un mezzo espressivo che sta raccogliendo consensi, soprattutto in Europa, dove con più prontezza che in Italia questa modalità aperta, crossover di fare cultura e spettacolo si è sviluppata in questi anni. Il direttore Lucia Ronchetti ci introduce ai fondamenti del programma dell’imminente Biennale Musica 2022.

Quale il processo che ha portato ad isolare questo nucleo tematico quale asse portante, identitario di questa edizione del festival?
È un festival che fa riferimento principalmente al glorioso e operoso passato veneziano, fatto di luoghi ed opere dei primi decenni del Seicento. Questa complessità è l’oggetto di studio e di sviluppo della nostra rassegna. Le proposte in programma sono tutte nuove produzioni, basate sulle memorie del passato veneziano sulle quali tutti i compositori stanno lavorando. L’edizione di quest’anno è infatti interamente dedicata al teatro musicale sperimentale, un teatro in qualche modo ‘da camera’, fatto con pochi mezzi ma con tecnologie molto avanzate, con i compositori che sono registi, librettisti, etc. Un procedimento che replica esattamente quanto veniva concepito e realizzato a Venezia nei primi decenni del Seicento, vale a dire una forma di laboratorio creativo di teatro musicale alla stregua di una stagione del carnevale veneziano. In qualche modo questa vitalità, questa forma laboratoriale, questa informalità viene rievocata in tutte le commissioni di quest’anno; tutti i compositori lavorano in modo originale, particolare. Solitamente preferiscono avere il loro gruppo di fidati, dotati di una disponibilità onnivora: la cantante suona anche qualche strumento, fa pure i costumi, lavora alla scena e inoltre fa la comparsa. Compositori come, ad esempio, Simon Steen-Andersen, danese, la quale definisce la propria posizione nella sua produzione come “compositore, librettista, regista e anche video performer”. Ha realizzato un video, di cui è anche regista, “gestito” in diretta, in totale interazione con i musicisti. Insomma, sono tutti compositori che rivestono allo stesso tempo ruoli molteplici, così come avveniva, anche se non sappiamo fino a che punto, con i vari Claudio Monteverdi o Francesco Cavalli, immersi anch’essi circolarmente in ogni loro produzione. Del resto al tempo non era apparsa ancora la figura del regista, di molto posteriore, ottocentesca direi. Il regista oggi invece, in ogni progetto antico o recente di opera, è assolutamente dominante. Perciò è molto interessante il riferimento alla Venezia di tre, quattro secoli fa, guardando la quale i compositori desantificano l’autorità autoriale intesa in termini assoluti. Si tratta di mettere in atto una dialettica molto intrigante, intensa, naturalmente anche molto rischiosa.

Il riferimento alla Venezia teatrale dei primi del ‘600 naturalmente non garantisce di per sé che poi i lavori proposti possano anche essere interessanti; dipende dai compositori che vengono coinvolti, in questo caso tutti davvero molto importanti e attivi sulla scena europea già da tanti anni, anche se non così conosciuti in Italia. Compositori ai quali abbiamo chiesto di proporre dei lavori che fossero in piena consonanza con la linea, la visione di base che informa l’ossatura culturale del festival, che vuole essere innanzitutto aperto al pubblico, perché abbiamo voluto propriamente concepirlo per il grande pubblico, rigettando qualsiasi idea di barriera intellettuale a protezione del recinto stretto degli addetti ai lavori. Sarà perciò un festival coinvolgente, giocoso, circense. Tutti i progetti propongono musiche assolutamente non “aggressive” nei confronti del pubblico; i compositori che ho scelto preferiscono lavorare in collaborazione con l’ascoltatore, non hanno la necessità esistenziale ed estetica di proporre una musica aggressiva, perché le loro ricerche, almeno in questo momento della loro fase compositiva, sono piuttosto basate sulla necessità di capire in che modo legare gli aspetti visivi a quelli acustici. Agiscono su un fronte di ricerca che non è quello della musica pura, assoluta, al contrario. Il loro lavoro si concentra in primis su una musica per il teatro.

Ho cercato artisti attivi, che si stanno confrontando con delle grandi responsabilità conducendo delle ricerche e impiegando nuove tecnologie per creare forme speciali di teatro musicale

Quali le differenze tra l’opera contemporanea e il teatro musicale sperimentale?
C’è una grande, sostanziale differenza. Negli ultimi anni vi è stata una copiosa produzione nel mondo, soprattutto in Europa, di nuova opera contemporanea. Ad esempio in Germania ogni anno ogni istituzione operistica commissiona un’opera nuova. Si tratta di progetti di musica contemporanea che devono corrispondere alla struttura dell’opera: c’è quella scena, l’orchestra è grande, regolarmente sta nella buca, i solisti sono cantanti d’opera specializzati in un certo tipo di vocalità. Il mio scopo non era quello di presentare il proseguimento della tradizione operistica nell’ambito della musica contemporanea, ma proprio di evidenziare invece una scena che in Europa sta prendendo sempre più spazio negli ultimi anni: quella della ricerca sulla teatralità del suono, sul teatro strumentale, indagando tutte le forme di sperimentazione sul teatro in musica, naturalmente lontanissime dalla dimensione stringentemente operistica. E precisamente in questa direzione sta il nostro dialogo, la nostra relazione viva e stimolante con il passato, poiché quando è nata a Venezia e a Firenze l’opera pubblica all’inizio del Seicento sono iniziate immediatamente le sperimentazioni di messa in musica del testo, quando invece precedentemente la musica si occupava solamente dell’accompagnamento di una performance teatrale. Nel momento in cui inizia quella straordinaria sperimentazione, le forme attraverso le quali il musicista e il librettista cercavano di mettere insieme il testo cantato erano problematiche, rappresentavano un grande dilemma, ma di grande interesse. I compositori dell’epoca hanno sperimentato tante forme diverse; man mano hanno cercato e creato dei luoghi dove tutto questo potesse essere accolto. A Venezia, in particolare, sono nati allora dei teatri pubblici. Prima la norma era che i teatri fossero privati, situati all’interno delle case delle famiglie nobili. Questo passaggio dei primi decenni del Seicento dal teatro privato a quello pubblico, quindi rivolto a un pubblico più vasto e variegato, è l’abbrivio storico di una tensione che nella fase di ricerca degli ultimi dieci anni della nostra epoca sta generando dei veri e propri capolavori di teatro del suono, in cui musicisti e cantanti si trovano in qualche modo allo stesso livello. Non sussiste più la rigida norma che il musicista stia nascosto nel golfo mistico ad accompagnare il cantante fisso sul palcoscenico.
Nei primi decenni del Seicento Venezia viveva un momento straordinario di cultura musicale, di libertà nel fare. Vennero allora affrontate alcune problematiche ancora oggi in fieri. Questa nuova macchina teatrale musicale fu investita da un successo sconfinato, con conseguente, rilevantissimo ritorno economico. Il modello veneziano si diffuse immediatamente un po’ ovunque; in pochi decenni in tutto il mondo si andarono ad allestire dei teatri all’italiana dove il pubblico si collocava intorno a uno spazio scenico, certo nel rispetto da un punto di vista gerarchico delle diverse categorie sociali. Un successo incredibile dovuto anche alle tante invenzioni veneziane sul fronte dell’ingegneria navale, poiché si trattava di una società straordinaria, in vivace fermento, dove gli intellettuali rivestivano un ruolo rilevantissimo, direi centrale. Ogni cosa aveva un significato speciale perché la riflessione da cui scaturiva era di altissimo livello. C’era un pubblico molto attivo che bisognava sapersi conquistare giorno per giorno. Un pubblico disposto a stare in teatro anche cinque ore, che seguiva le repliche, che quindi non poteva certo essere annoiato. Alcune opere di Monteverdi, di Cavalli e di tanti altri autori sono delle riflessioni sull’armonia, delle organizzazioni sulla linea vocale rispetto al canto, scritte sempre in grande velocità. Ogni opera era un salto nel buio e la verifica era impietosa: i compositori, che spesso partecipavano all’impresa, rischiavano sempre moltissimo e in prima persona, dal momento che non ci voleva molto per andare in rovina insieme al teatro e alla propri compagnia. Nella Venezia seicentesca questi compositori erano lavoratori attivi dello spettacolo; si assumevano molti rischi e condividevano concretamente con tutte le altre componenti dell’allora nascente industria-teatro gli esiti di queste scommesse culturali.

Quali sono stati i criteri che hanno guidato la selezione delle commissioni proposte in programma?
Non ho cercato compositori che potessero lavorare filologicamente sui manoscritti veneziani, ma artisti attivi che si stanno confrontando con delle grandi responsabilità, che conducono delle ricerche e impiegano nuove tecnologie o formano degli organici speciali, oppure creano delle forme speciali di teatro musicale. Come, ad esempio, Ondřej Adámek. un compositore in grado di ruotare le competenze sui diversi ruoli: se sono previsti dei cantanti in scena, dei musicisti e dei danzatori, tutti sono cantanti, musicisti e danzatori, lavorando in modo di essere un ensemble coeso. Per realizzare a Venezia il suo lavoro, Simon Steen-Andersen ha richiesto un gruppo composto da musicisti veneziani in grado di eseguire la musica veneziana del ‘600; inoltre tre giovani cantanti, non necessariamente affermati e però originari di Venezia, che possano mettersi a disposizione con la familiarità e la naturalezza del loro ambiente e disposti, allo stesso tempo, a mettere in discussione la propria professionalità. Una richiesta in contrasto, quindi, con la consuetudine delle ‘scatole professionali’: sei cantante? E sei cantante per sempre. Sei clavicembalista? Idem. Nel teatro musicale sperimentale è invece opportuno rimettere in discussione il proprio consolidato ruolo professionale; penso all’ensemble straordinario diretto da Massimo Raccanelli, violoncellista veneziano che ha sempre eseguito musica barocca veneziana e che si è trovato a collaborare con un compositore come Steen-Andersen capace di spiazzare, di spezzare le convenzioni di genere come pochi altri. Nello spettacolo i componenti dell’ensemble si trasformano in una troupe che conduce un’indagine animata da un interrogativo: dov’era il teatro San Cassiano? Il compositore danese ha pensato di comporre un “path di ricerca” del luogo geografico di questo glorioso teatro. Un percorso di gruppo sulla base della drammaturgia del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, partitura creata e replicata nel teatro dei SS. Giovanni e Paolo e nel teatro appunto di San Cassiano, entrambi scomparsi. Naturalmente è disperso tutto il materiale relativo allo spettacolo, tranne proprio la partitura che era stata stampata. Venezia in quel periodo era una delle capitali mondiali dell’editoria, anche musicale. Ed è precisamente la partitura su cui Simon Steen-Andersen lavorerà per lo spettacolo che presenterà al festival. Il compositore contemporaneo si trova di fronte a un miracolo straordinario, che poi ha influenzato tutta l’opera a venire, parte del quale è ancora in repertorio in moltissimi teatri del mondo. Simon Steen-Andersen è per me il compositore in Europa che sta cercando una dimensione nuova e diversa per il teatro musicale. Il risultato non va valutato in termini filologici; non è detto che Steen-Andersen comprenda gli aspetti della musica di Monteverdi che la musicologia ha studiato. Eppure in qualche modo, col suo inconfondibile tratto, è in grado di evocare questo teatro scomparso. Noi, attraverso il suo progetto, siamo felici, eccitati direi, di celebrare questo teatro che non esiste più e dal quale tutto è nato.

Ci descrive qualche altro progetto in cartellone?
L’olandese Michel van der Aa presenta il 19 settembre una nuova commissione della Biennale Musica, un progetto pensato per un luogo così importante e significativo per la città, ma non solo, quale è il teatro Goldoni. Nonostante gli inevitabili ammodernamenti, infatti, è l’unico teatro veneziano che si trova ancor oggi nel medesimo luogo fin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1622. Su quei pochi metri quadrati si è accumulata negli anni un’esperienza operistica unica. Van der Aa con questo lavoro rivela una straordinaria, peculiare sensibilità al tema delle acque: quelle che circondano le abitazioni, le acque instabili, umorali, le acque che sommergono. Il suo è un vero, vissuto omaggio a Venezia e alla sua laguna. Del resto, e come sarebbe potuto essere diversamente?, molte opere veneziane sono ideate sul motivo lagunare.
Noi siamo in possesso del libretto della primissima opera veneziana. La partitura è scomparsa ma il libretto c’è rimasto. Il primo giorno nella storia del mondo in cui un pubblico pagante entrava in un teatro; e quella era il primo spettacolo messo in scena, la prima opera. Così scrive il librettista nella decima edizione del libretto: «il pubblico entrava in questa sala buia illuminata da pochissime candele e si trovava di fronte un paesaggio acquatico: la scena era l’acqua». La scena del teatro era l’acqua finta, incredibile! E prosegue: «…la cui naturalezza era talmente artifiziosa che il pubblico si chiedeva se stava fuori sulla laguna o dentro a un teatro». Michel van der Aa lavora sul deterioramento del paesaggio dovuto alle alluvioni, alle piogge, alle inondazioni, alle acque alte. Questo paesaggio si deteriora portandosi appresso la memoria del paesaggio stesso, la capacità di ricordare, ma poi di fare e anche di pensare; è noto, del resto, che se perdiamo il rapporto con il nostro territorio perdiamo noi stessi. Van der Aa ripensa anche alla prima scena, questo primo vissuto del primo pubblico veneziano. È un’opera incentrata autenticamente sul tema dell’ecologia, sui problemi degli ecosistemi, più nello specifico sulla fragilità del territorio veneziano. Ciò facendo in qualche modo parla anche della teatralità della città di Venezia. A Venezia è nato il teatro d’opera commerciale, che quasi sempre riprendeva ciò che accadeva nelle calli. Lo specchio d’acqua, mobile e instabile, rende tutto artificioso ed è per questo che tutti i turisti che arrivavano a Venezia dicevano gli sembrasse di stare in teatro. Questo specchio d’acqua in luogo delle normali strade rende stranamente fragili e artificiosi i palazzi che vi si rispecchiano, che invece sappiamo solidissimi, fondati su palificazioni robustissime. L’impressione visiva è di fragilità proprio perché manca la strada, il profilo orizzontale e stabile del suolo. Tutto ciò viene magistralmente ripreso nell’opera di Michel van der Aa.

Il 24 settembre un altro lavoro sarà eseguito nel meraviglioso contesto della sala capitolare della Scuola Grande di San Rocco, uno dei luoghi per eccellenza della musica di Venezia, spazio nato per le riunioni della Confraternita, ricchissima e che si fregiava dell’opera e della dedizione di Jacopo Robusti detto il Tintoretto. In quella sala i componenti della Confraternita si riunivano e, seduti sugli scranni del coro che circonda tutta la sala, potevano perfettamente parlarsi a distanza, ovviamente senza microfoni. La sala possiede un’acustica fantastica proprio per il parlato, ed è circondata dalla visione di Tintoretto, da questo ciclo pittorico mondiale, sintesi biblica del tutto. Nei particolari delle sue realizzazioni Tintoretto ci mostra molti aspetti del mondo veneziano di allora. Per questo teatro di pura arte che pulsa vivissima ancora oggi il compositore Adriano Banchieri compose alcuni madrigali rappresentativi: nel teatro musicale sperimentale è molto importante il madrigale rappresentativo, da sempre sviluppato qui a Venezia. La Cappella di San Marco garantiva ai compositori, ai maestri di cappella e a tutti i musicisti ottime condizioni di lavoro. I compositori venivano pagati per sperimentare, con tutte le Scuole di mutua assistenza e di categoria artigianale in gara per sostenere e promuovere la cultura musicale. Adriano Banchieri ha scritto dei capolavori vocali che, se fossero eseguiti al giorno d’oggi, avrebbero la forza della contemporaneità. Cosa succede nella sua raccolta di madrigali La barca di Venetia per Padova? Un affresco di cinquanta minuti nel quale su una barca che parte da Venezia per Padova il gruppo di viaggiatori fa reciproca conoscenza. Le loro provenienze sono disparate, Venezia era la città più cosmopolita del mondo in quel momento. Banchieri produce un ritratto musicale di questo dialogo plurimo citando persino stilemi delle diverse scuole nazionali compositive di cui noi oggi non percepiamo la forza citativa: il compositore qui rappresenta in musica la società globalizzata e varia del mondo veneziano. La protagonista di questo appuntamento, Annelies Van Parys, è una compositrice belga raffinatissima che si occupa di teatro musicale da diverso tempo. La Staatsoper Unter den Linden di Berlino tre anni fa le ha commissionato il completamento de la Chute de la maison Usher di Debussy, riconoscendone il talento di entrare nel contesto musicale di un altro compositore del passato, di comprenderlo, di ri-comporre la sua musica restituendone con originalità i tratti. Van Parys realizzerà il progetto presso la sala capitolare della Scuola Grande di San Rocco con il pubblico che sarà collocato dove si sedevano i membri della Confraternita, circondato dal ciclo pittorico di Tintoretto. La compositrice rivede il madrigale di Banchieri e vi aggiunge due personaggi, due donne contemporanee che fuggono da guerre, migrazioni, partecipano a questa traversata, entrano nel dialogo e parlano un’altra lingua, una lingua contemporanea. Per realizzare questo progetto occorreva un ensemble vocale capace di eseguire la musica di Banchieri e contemporaneamente in grado di eseguire delle parti vocali a cappella scritte da un compositore contemporaneo come la Van Parys. Francesco Erle ha creato per l’occasione un nuovo ensemble, Venezia Eterna. Nonostante la grande storia veneziana della musica vocale, non esisteva a tutt’oggi a Venezia un ensemble vocale adatto ad un lavoro di questo tenore. Francesco Erle ha riunito qui cinque cantanti veneziani che diventeranno dei veri e propri compagni di viaggio di Annelies Van Parys. Grazie al Festival della Biennale Musica, quindi, addirittura come vedete nascono nuove compagini musicali, vere e proprie nuove sfide incentrate sul dialogo tra istanze contemporanee e profonde radici storiche.

Una delle produzioni più belle di questa edizione del Festival poi è il progetto che andrà in scena nella Basilica di San Marco il 21 settembre. Si tratta di una sacra rappresentazione della compositrice estone Helena Tulve basata sui frammenti medievali ritrovati da Giulio Cattin a Santa Maria della Fava. Frammenti suggestivi, musicalmente bellissimi: nell’ambito del teatro musicale sperimentale, in questa sede prestigiosa ed importante verrà ricreata la forma della sacra rappresentazione, una forma rara nella musica contemporanea. Si tratta di un lavoro di vero e proprio teatro musicale sperimentale: i coristi riempiranno l’intero spazio all’interno del quale si attraverserà il delicatissimo limite che sempre meno separa il teatro sacro contemporaneo dalla produzione di musica contemporanea.

Tre giorni prima, praticamente di fronte alla Basilica, sarà la volta della Biblioteca Marciana. Biblioteca di cruciale rilevanza internazionale che al suo interno presenta uno spazio a dir poco meraviglioso, il Salone Sansoviniano, che in origine era la sala di lettura. Questo spazio si presta emblematicamente a rinnovare la dimensione teatrale della lettura, la lettura performativa: la lettura ad alta voce è parte del teatro musicale sperimentale, è una delle forme predilette del teatro musicale sperimentale perché è la voce che diventa suono. È successo per l’occasione un miracolo, come solo qui a Venezia accadono: Paolo Da Col, direttore dell’Odhecaton ensemble, riconosciuto in tutta Europa come uno degli ensemble italiani per la musica antica più importanti, è diventato l’anno scorso bibliotecario del Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia. Da Col è un bibliotecario, ma è anche cantante, performer, direttore di repertorio antico, la persona quindi più indicata a svolgere un lavoro musicale fra testo, performance e vocalità. Avvalendosi di testi fondamentali della nascita del teatro a Venezia e a Firenze, ad esempio di Giulio Caccini detto Romano, autore della prima opera, Le nuove Musiche, e di tutti i testi epistolari di Monteverdi in cui il cremonese raccontava cose straordinarie sul teatro, nella conferenza performance del 18 settembre alla Marciana spiega cosa intende, per esempio nel Combattimento di Tancredi e Clorinda, quando afferma che «questo è un madrigale diverso dai madrigali senza gesto». Vengono usate per la prima volta parole che successivamente sono diventate fondamentali per tutta la storia del teatro. Monteverdi ha immaginato che la musica poteva essere gestuale, che c’era un madrigale versato nella rappresentazione, e dava istruzioni sul rispetto della misura gestuale che la musica implicava. Da Col eseguirà nel Salone Sansoviniano una lettura performativa di questi testi.
Oltre a questo, ha scritto un testo per il catalogo in cui pone a confronto le nuove produzioni del Festival in rapporto alle musiche e ai luoghi veneziani preesistenti, spiegandoci come questo miracolo può e deve avverarsi. Perseverando.

Ph. Andrea Avezzù, Claus Langer