Il magico potere delle parole

Ryōko Sekiguchi e la scrittura come archivio dell’effimero, tra poesia, cucina e memoria
di Mariachiara Marzari
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Poetessa, scrittrice e traduttrice giapponese trapiantata a Parigi, Ryōko Sekiguchi intreccia nei suoi libri letteratura, memoria e cucina in un equilibrio raffinato tra parola ed emozione. In Italia è nota per Nagori. La nostalgia della stagione che ci ha appena lasciato (Einaudi, 2022), premiato in Francia con il Prix Mange, Livre.

Nel 2018 ha pubblicato con Casadeilibri Il club dei buongustai e altri racconti culinari giapponesi, un’antologia che attraversa secoli di scrittura gastronomica ora in ristampa. Recentemente è stata in residenza a Venezia con Wetlands, casa editrice che promuove la relazione tra scrittura e luogo. Le abbiamo rivolto alcune domande partendo dal filo sottile che unisce scrittura e nutrimento.

È nata prima la passione per la cucina o quella per la letteratura? Come ha trovato il suo equilibrio tra questi due mondi?
Penso che la passione per “ciò che ci nutre” in generale sia nata prima di tutto e poi si sia ramificata nella letteratura, nella cucina o nella musica. Scrivere di cucina è per me un atto politico. La cucina è considerata un genere poco importante, volgare, mentre è invece parte integrante della nostra vita ed è come una grande ciotola collegata a tutti i temi essenziali della letteratura: l’amore, la famiglia, la felicità, ma anche la malattia, la separazione, la solitudine, la morte, le lotte di classe, la questione dell’immigrazione. E poi mi piace cucinare per sentirmi connessa alla terra, alle cose concrete ed effimere, alla vita degli altri, ma anche per riflettere sul nostro destino crudele: dobbiamo nutrirci, quindi togliere la vita ad altri per poter continuare a vivere.
Un giorno mi piacerebbe molto affrontare un tema molto pesante ma essenziale: la fame (e la carestia).

Nel prologo del suo libro Nagori, afferma, anzi, rivendica il ruolo e la forza della singola parola capace di suscitare ricordi, pensieri, mondi. La parola va quasi assaporata? Come ricerca le parole “originarie”? Cosa significa per lei emozionare attraverso la parola?
Penso che questa “fede” o questa “fiducia” assoluta nel potere delle parole derivi dalla mia prima vocazione, la poesia. In una poesia le parole possono fare tutto: far emergere il mondo, i ricordi, modificare le nostre percezioni, la temporalità, farci sentire la musica, ritrovare l’anima che abbiamo perso. Non cerco parole “originarie”; tutte le parole, purché siano davvero parole, devono avere questo potere magico ed è anche questo che rende incredibile la lingua. Ogni giorno non smettiamo mai di lasciarci sorprendere dalle parole che pronunciamo.

Elemento fondamentale della cucina è la stagionalità, che traslata nella vita si traduce nel tempo che scorre implacabile. Quale la sua personale definizione di tempo?
La stagionalità non è sinonimo di tempo che scorre inesorabile, perché la stagione costituisce il tempo ciclico. È il tempo lineare della nostra vita che è a senso unico. È per questo che il ritmo delle stagioni può talvolta essere la nostra salvezza, senza la quale ci troveremmo di fronte a questo tempo unico e crudele che va verso l’abisso.
Parlare di stagionalità significa parlare della vita. Come scrittrice faccio solo una cosa: cerco un modo magico, anche solo in un libro, per far durare la vita e riportare in vita anche i morti, i nostri cari, le persone che abbiamo tanto amato. Un po’ come la piccola fiammiferaia di Andersen. Quella piccola venditrice di fiammiferi sarà sempre la mia eroina. Con il suo fiammifero fa emergere i momenti essenziali della vita, l’amore, la speranza. Alla fine non la salverà, morirà il giorno dopo, ma quel momento essenziale sarà esistito. Ed è forse questo che la letteratura con i suoi libri dovrebbe fare, essere quei fiammiferi.

Ogni giorno non smettiamo mai di lasciarci sorprendere dalle parole che pronunciamo

Il Giappone, la sua terra di origine, è il protagonista indiscusso dei suoi lavori. A quale Giappone s’ispira? Quanto il suo Paese, la sua cultura influenza la sua scrittura?
Per molto tempo mi sono imposta di non scrivere alcunché sul Giappone. Tutti vedono che sono giapponese, non volevo essere un’intellettuale al servizio del Paese, una sorta di “signora giapponese”. Scrivo professionalmente dal 1988, ma fino al 2010 nei miei libri non compariva nemmeno una volta la parola “Giappone”. Proprio per questo, in particolare nel mio Paese, sono stata a lungo considerata una scrittrice profondamente influenzata dalla cultura occidentale.
È stata la tripla catastrofe del 2011 (terremoto, tsunami e incidente nucleare di Fukushima) a cambiare la mia vita di scrittrice. Mi sono resa conto che stavamo perdendo il Paese. Si può contare il numero dei morti, il numero delle case spazzate via dallo tsunami, ma non si possono ‘contare’ il profumo delle magnolie che fioriscono, i piatti serviti in una famiglia, la musica suonata in un villaggio, eppure sono proprio questi piccoli, preziosi elementi che costituiscono la nostra vita. Per non parlare della cucina. E con Fukushima abbiamo perso la regione famosa per il sake, la selvaggina e la frutta. È da quel momento che ho iniziato a scrivere di cucina, ma prima di tutto dei sapori che abbiamo perso a causa di quella catastrofe. Mi considero un’archivista dell’effimero.

Lei è stata recentemente ospite di una residenza per Wetlands a Venezia. Quali sono le sensazioni che questa città le ha trasmesso? E come questa esperienza entra nel suo percorso di scrittrice?
Ah, questo non lo dirò ancora, bisognerà aspettare l’uscita del mio prossimo libro per saperlo… Scherzi a parte, mi piace sempre questo momento in cui scrivo di una città partendo dalle mie osservazioni, dai miei incontri e dalle mie ricerche, senza che chi mi conosce possa ancora immaginare cosa sta accadendo tra le mie pagine.
Mi identifico profondamente come “scrittrice di città”. Sono nata a Tokyo, vivo a Parigi. In questo spazio in cui gli esseri umani, l’ambiente e la storia lasciata da coloro che vi hanno vissuto negoziano incessantemente, si crea un dinamismo incredibilmente stimolante da osservare e da vivere. Sarei incapace di scrivere un libro, o anche solo un breve testo, sulla campagna o su un luogo in cui l’impronta umana è minore, mentre ci sono romanzieri che eccellono nell’arte di scrivere sui luoghi disabitati.
Ho già scritto di Tokyo e ho pubblicato un altro libro su Beirut. Quest’ultimo mi ha permesso di fare tantissimi incontri e, come in un effetto domino, da questi incontri sono nate altre creazioni. Sono sicura, o almeno lo spero, che avverrà lo stesso per il libro su Venezia. Al di là di ciò che questa esperienza mi ha dato nel mio percorso di scrittrice, quando scrivo di una città cerco di darle un senso. Non scrivo “di” una città, scrivo in qualche modo “per” quella città. Mi auguro sinceramente che il mio libro abbia un senso per Venezia, che amo.

Immagine in evidenza: © Laurent Dupont
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