Il tesoro di Matilde

Con I fiori di Matilde Klee, Roberto Nardi torna alla narrativa tra memoria, arte e mistero
di Mariachiara Marzari
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Giornalista e scrittore veneziano, Roberto Nardi racconta il suo passaggio dalla cronaca alla narrativa pura con I fiori di Matilde Klee, un romanzo corale dove un furto d’arte diventa pretesto per indagare le ombre del presente e la possibilità della speranza. Un dialogo tra realtà e finzione, in cui la città e i suoi silenzi diventano protagonisti.

Conscia del privilegio di poter – da giornalista – vedere aprirsi le porte di mostre, collezioni, palazzi in anteprima, mi piace osservare le reazioni dei diversi, ma siamo sempre più o meno gli stessi, invitati. Una sceneggiatura che si ripete di conferenza stampa in conferenza stampa e che nel tempo mi ha portato a indagare le diverse personalità e i diversi approcci ai linguaggi dell’arte, poi restituiti attraverso importanti articoli. Tra di essi, da molto tempo, ho avuto il piacere di conoscere prima il sorriso sornione, poi l’arguzia di poche parole e infine la delicata ironia e il garbo di Roberto Nardi. Come giornalista non è necessario sottolineare la professionalità e lo stile, tuttavia come scrittore è certo una scoperta. Sarà perché ci accomuna una passione sfrenata per la storia dell’arte, ma il suo primo libro, Perché io? Il mistero del furto della Madonna con bambino di Bellini a Venezia, è stato una piacevole rivelazione. È uscito ora da poco il suo secondo lavoro, I fiori di Matilde Klee (Mazzanti Libri, 2025), in cui Nardi intraprende la strada del romanziere puro. Niente più cronaca, solo esperienza e vissuto che si trasformano in parole, storie, vite, come ci racconta in questa intervista. Con grande piacere e curiosità, quindi, mi trovo davanti alla nuova copertina, che non poteva che essere d’autore – l’artista Jingge Dong –, e alle nuove pagine da leggere tutte d’un fiato. Buona lettura, e per Roberto… non c’è due senza tre!

Cronaca e fiction. Come si è evoluto il suo stile nel passaggio da un genere all’altro, come ha trovato un suo equilibrio in questa variazione di rotta?
C’è un nesso profondo tra Perché Io? e I fiori di Matilde Klee, entrambi editi da Mazzanti Libri, ed è legato a una dimensione personale centrata su un termine preciso: urgenza. Avevo sentito l’urgenza di scrivere due anni fa su un fatto di cronaca, il furto di un dipinto di Giovanni Bellini dalla chiesa della Madonna dell’Orto, opera mai più ritrovata, constatando il silenzio che era calato su questa ‘ferita’ per la città e più in generale per tutti coloro i quali amano l’arte. Questa “chiamata”, data la natura del fatto di cui ricorreva il trentennale, non poteva che essere assecondata da una scrittura dallo stile eminentemente “giornalistico”.
Pur di altra derivazione, sempre un’urgenza, relativa stavolta a ciò che stiamo vivendo, alle derive sociali e politiche, alle paure, alle chiusure, ai venti di guerra, alle stragi di innocenti, al riecheggiare di voci e suoni che pensavamo silenziati dalla storia, è alla base anche di questo mio secondo libro. Stavolta, però, ho deciso di scrivere una storia di fantasia che ha profonde radici nel presente, in quello che considero un amaro presente e un ancor più triste futuro, seppure ritenga ci sia un margine, una flebile luce che illumini ancora la speranza.
Il passaggio dal genere della cronaca e della storia dell’arte, sotto il vincolo necessario del radicamento a fatti e persone reali, alla narrazione di una vicenda inventata, popolata da personaggi inesistenti è stato naturale, quasi inaspettato. Non so se sono riuscito a trovare un equilibrio tra questi due modi di disporsi alla scrittura, ma so che l’uno e l’altro hanno rappresentato le naturali risposte alle due urgenze di cui parlavo prima.

Un titolo, I fiori di Matilde Klee, che è subito “erroneamente evocativo”, ma che certamente delinea un fil rouge che lega il primo al secondo dei suoi libri. Qual è il reale, effettivo ruolo che riveste l’arte nei suoi lavori? Quali le vere ragioni di questo titolo?
“L’erroneamente evocativo” nella domanda immagino riguardi il nome della protagonista, che ai più può richiamare la famiglia di Paul Klee, il pittore svizzero-tedesco icona dell’arte del Novecento. Chiariamo subito, allora, che non è un libro che parla dell’artista, tanto meno una biografia della sorella maggiore, Matilde. Il tempo della storia è oggi, è il nostro presente, non gli inizi del secolo scorso.
Nel libro spiego fin da subito che è solo un caso, che non c’è alcuna relazione di parentela tra Matilde, nata nei primi anni della Seconda Guerra mondiale, e Paul Klee. Tuttavia non ho saputo non cedere al fascino, al richiamo incantatore non cercato, di un’assonanza che nella sua stessa essenza parla d’arte, crea un’aspettativa attorno alla bellezza dell’arte, rendendo naturale quasi il fatto che Matilde possieda una importante collezione di dipinti e disegni, che abbia acquistato opere realizzate nella prima metà di quel secolo travagliato segnato da grandi crisi, guerre, totalitarismi.
Nel racconto le storie personali dei personaggi, la vicenda stessa narrata che li tiene uniti, si intrecciano con l’arte, con la storia, con una certa idea della funzione dell’arte nella storia. Sono grato a Jingge Dong, artista cinese che da anni vive a Venezia, per il dipinto in copertina, segno del secolare ponte tra culture diverse.
I fiori di Matilde Klee, insomma, è un titolo frutto di una riflessione che ha portato a una serie di scelte e ripensamenti, il cui semplice obiettivo è stato quello di evocare, senza svelare nulla, niente di più e niente di meno che il contenuto del romanzo. Se nel titolo del libro per il furto del Bellini tutto era evidente, dichiarato, qui ho voluto mantenere una sospensione attraverso un’immagine “erroneamente evocativa”, apparentemente chiara, quasi romantica.

Ogni personaggio è figlio di uno e mille genitori, di uno e mille ricordi, di uno e mille momenti di una vita vissuta, narrata, inventata, immaginata

Chi è Matilde Klee?
Matilde è una donna anziana, vedova, che vive una solitudine cercata e circondata da opere d’arte, dagli amati fiori e da piante, in un piano di palazzo in una città di campi e rii. Madre di un figlio che da anni vive all’estero e nonna di nipoti lontane. Una donna apparentemente algida, distante, che governa i rapporti con gli altri attraverso i discorsi sui fiori, che ogni pomeriggio va a comprare vicino a casa, e sulle notizie sentite soprattutto alla radio.
Una donna che è stata felice e che si è volutamente chiusa al mondo dopo la morte del marito, percorsa tuttavia da una energia, da una volontà che non si è mai spenta e che improvvisa, quasi inaspettata, ma in una certa misura intimamente cercata, riemerge, bussa alla porta del suo essere, quando anche la storia, quella con la S maiuscola, torna a riaffacciarsi con altre vesti sul suo quotidiano.

Il romanzo ha una trama accattivante, con un intreccio di personaggi che ruotano attraverso un disegno di un maestro del Novecento e al suo furto. Anche in questo caso, come nella sua precedente opera, il furto è l’elemento scatenante delle indagini e dell’intrecciarsi delle storie.
In realtà Matilde non è la sola protagonista del romanzo. Ciò che le accade, le ragioni dello sviluppo della vicenda, sono intrecciate, a volte in modo evidente e in altre occasioni intimamente collegate, alle vite e ai pensieri di Pietro Goti, un fisico nucleare residente al terzo piano del palazzo, giovane dal carattere aperto che ama l’arte la cui gentilezza nei modi e nelle parole colpiscono Matilde positivamente, di Lucrezia, una ricercatrice francese fidanzata di Pietro, di Aldo, un corniciaio laureato in storia dell’arte, e di Gastone Rospi, un ex truffatore e ladro in lotta con sé stesso e con un passato che lo tormenta.
Poi c’è un disegno di un maestro del Novecento che compare a un certo punto e pare assumere un ruolo centrale nello sviluppo della vicenda narrata, negli interessi, nelle stesse relazioni tra i vari personaggi.
Un punto di svolta nella narrazione, quasi sorgivo direi, coincide con un furto a casa di Matilde che chiama in causa direttamente il disegno. È un momento centrale perché dà origine a dei punti interrogativi, a degli sviluppi non prevedibili, all’irruzione nella storia narrata di altre vicende personali e collettive. ­­­È un elemento scatenante di un nuovo inaspettato, fautore di novità inattese.
Rispetto al libro sulla sottrazione del quadro alla Madonna dell’Orto, dove il tema del furto è centrale, nella vicenda narrata ne I fiori di Matilde Klee lo stesso tema è sì una componente importante dell’intreccio romanzesco, ma al tempo stesso rappresenta un semplice strumento, una sorta di chiave per aprire altri orizzonti.

Come nascono i suoi personaggi? Pur essendo certo fortemente e personalmente caratterizzati, ci paiono volti, profili che abitualmente incontriamo tra le calli di Venezia…
Ogni personaggio è figlio di uno e mille genitori, di uno e mille ricordi, di uno e mille momenti di una vita vissuta, narrata, inventata, immaginata. È come se, mentre scrivevo, ognuna delle persone in scena indossasse una giacca, una gonna, dei pantaloni, mostrasse un sorriso, uno sguardo triste, avesse un proprio tono di voce, un taglio dei capelli che non potevano che essere quelli. Sono rimasto io stesso meravigliato da come naturalmente hanno preso forma. Non hanno un volto, un’altezza, un riferimento preciso, ma hanno una storia che è figlia di tante storie diverse. Persone che ho incontrato, che incontro, che incontrerò nelle tante Venezie della mia vita.

La città non compare in primo piano, ma viene rappresentata attraverso l’atmosfera umida e piovosa che per lunghe stagioni la caratterizza. Quale ruolo ha questa persistenza nella storia?
Accennavo prima a un silenzio attorno alla sorte di un quadro. Attorno alle sorti della città dove sono nato, che amo e che non riesco a non guardare nel suo continuo evolversi con un misto di intima delusione, di tragedia e al contempo di speranza, sento da tempo invece levarsi tante voci, sento suoni impercettibili e urla roboanti. Sento un clima di disagio, di desideri di guardare al nuovo che cercano punti d’appoggio che scivolano via. Sento di vivere immerso in un’atmosfera umida e piovosa, sì.
Ricordo che la storia narrata prende avvio con la frase «la pioggia fu annunciata dal latrare dei cani». È la messa in scena di una presenza, di una irrequietezza interiore, di un presagio di una fine che accompagna il lettore per gran parte del libro. Ma come dicevo prima, sento sempre la presenza di una speranza, di un possibile ribaltamento del dolore in gioia, di una trasformazione della prigione dell’egoismo in gioia dell’apertura verso l’altro. Chi avrà voglia di leggere il libro avrà delle sorprese a riguardo, credo.

A quale genere letterario si ispira e quali sono i suoi autori cult?
Ho scelto di dividere i tempi della storia in quattro parti come se fossero quattro momenti di un racconto corale, che si nutriva del cambio delle stagioni, che aveva bisogno di questo cambio. Non vorrei entrare in categorie definite, come romanzo breve o racconto lungo; preferisco pensare al libro come a un’opera di fantasia, strutturata su un piano piuttosto classico, che si nutre del vivere, del sentire quotidiano, che trae linfa dalle emozioni personali e dalle storie che compongono il nostro presente. Riguardo agli autori che amo, la lista è lunga. Un’amica ricorda che Matilde spesso rilegge libri che ha già letto più volte, perché ogni volta trova una ragione nuova per farlo. Io sono Matilde. Ne cito solo alcuni non per definire una classifica, ma semplicemente per cercare di uscire dalle insidie della domanda: Borges, Sciascia, Del Giudice, Tabucchi e Simenon.

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