Didier Guillon, artista, presidente e fondatore animatore della Fondation Valmont svela la sua personale visione dell’arte: allargata e proiettata verso il futuro.
Imprenditore, ma soprattutto artista, curatore non tradizionale e agitatore culturale. Didier Guillon, già Presidente del Gruppo Valmont, nome di riferimento nella cosmesi di lusso, è fondatore e animatore della Fondation Valmont, che ha scelto di stabilirsi non a caso a Venezia. Unisce una passione contagiosa per l’arte a una complessa visione sul presente allargato e rivolto verso il futuro.
Non stiamo parlando di NFT o arte digitale, Didier Guillon ama opere e artisti legati alla tradizione, però aperti a esplorare nuovi campi di creazione. Le sue visioni e le sue idee prediligono metafore – una fra tutte l’immancabile gorilla – dalle radici solide e al contempo concepite per affrontare le sfide attuali, denunciando criticità del nostro tempo e cercando modi per “incantare” la realtà. Gli piace pensare a nuovi modi di avvicinare, elaborare e valorizzare l’arte contemporanea, ma soprattutto a come riuscire a traghettare tutto questo alle generazioni future attraverso la realizzazione di nuovi progetti eco-responsabili.
Invitati a visitare la nuova splendida Résidence Bonvicini nel sestiere di Santa Croce, all’ultimo piano di Palazzo Bonvicini, sede espositiva della Fondation dove è in corso la mostra Peter Pan. La nécessité du rêve, abbiamo con lui intavolato un fitto e intrigante dialogo sul contemporaneo e sul possibile ruolo dinamico di Venezia nel futuro che stiamo scrivendo. Ne siamo usciti molto carichi di energia.
La Fondation Valmont a Venezia presenta un nuovo assetto: sede espositiva temporanea e nuovi spazi dedicati alle residenze d’artista. Come si articolerà la nuova programmazione e come una parte si integra e si completa con l’altra?
In modo semplice e logico: le mostre vengono realizzate in collaborazione con gli artisti venuti a lavorare direttamente nelle Résidences Valmont di Idra (Grecia), Verbier (Svizzera), Venezia (Italia) e prossimamente Barcellona (Spagna). La mostra Peter Pan. La nécessité du rêve è stata per esempio concepita e immaginata a Idra. Perché Idra e non Venezia? Ci è sembrato interessante creare un’idea, un concetto, una filosofia strategica nella culla della nostra civiltà per poi declinarla a Venezia, perpetuando attraverso l’arte contemporanea il legame strettissimo tra la perla lagunare e la Grecia. La mostra poi a Venezia è entrata nel circuito di pubblico della Biennale Arte, innescando nuove reti di contatto e collaborazione con altri artisti, gallerie, istituzioni, prodromo di nuovi progetti. Per il 2024, in occasione della prossima Biennale Arte, seguiremo il solco tracciato quest’anno. Non è mai solo arte ciò che proponiamo quindi, ma uno sguardo allargato sul contemporaneo.
Quali sono gli obiettivi prospettici di questo nuovo assetto della Fondazione? Vi è una idea futura che porta alla formazione di una Collezione permanente a Venezia e di conseguenza a una apertura “museale” di essa?
Il progetto di Fondation Valmont si inserisce in una prospettiva più ampia, in una visione futura di accompagnamento e sviluppo di azioni e comportamenti da adottare per essere partecipi del rinnovamento del nostro pianeta. Non si tratta, quindi, di esporre delle opere già fatte, ma delle opere che devono ancora essere fatte, in una dimensione differente e corresponsabile di sviluppo duraturo. Per me esporre la collezione che apparteneva a mio nonno non ha alcun interesse, perché significherebbe ingessarsi in una dimensione, per quanto alta, storica; noi invece vogliamo con i nostri nuovi progetti accompagnare i visitatori, le nuove generazioni, nel futuro. Certo esiste una collezione Valmont, ma questa è in continuo movimento, distribuita nelle varie Maisons in giro per il mondo. Per me esporre le collezioni in maniera permanente non ha alcun senso, non voglio creare un mausoleo. Le opere che commissioniamo per le mostre, essendo progetti sitespecific, installazioni fisiche, vengono alla fine smontate. L’artista si porta via l’opera o parti di essa, mentre noi distruggiamo l’installazione, perché non vogliamo conservare un lavoro fuori dal contesto per cui è stato creato. Distruggo e riuso quegli elementi dell’opera nella misura in cui è possibile riciclarli: cartone, carta, giornali… I miei disegni sono fatti sul «New York Times» per esempio; tutto si trasforma, niente rimane inalterato.
In che relazione si porranno le diverse Résidences Valmont e quale programmazione assumeranno le future mostre?
La prossima e ultima residenza aprirà i suoi battenti a Barcellona. Ciascuna di queste quattro Résidences corrisponde a una stagione: Verbier l’inverno, Venezia la primavera, Idra l’estate, Barcellona l’autunno, per cui i nostri programmi vengono organizzati con queste cadenze stagionali. Vi è però una comune attenzione verso un importante programma di eco-responsabilità, che coinvolge tutte le residenze e gli artisti. Il nostro impegno è di essere plastic-free, di non servirci più della plastica nelle nostre residenze. A Venezia, per esempio, non usiamo bottiglie di plastica per l’acqua, beviamo quella del rubinetto. A Idra è un po’ più complicato, perché l’acqua è desalinizzata, per cui abbiamo trovato una marca di acqua che usa il tetrapak. A Verbier abbiamo finanziato una piccola società che realizza una limitatissima serie di sci che possono essere personalizzati, naturalmente a impatto zero. Per quanto riguarda Venezia, stiamo lavorando a un progetto importante che non possiamo ancora comunicare, un progetto di finanziamento eco-responsabile. A Barcellona aiutiamo la Fondazione Artigas ad avere la propria autonomia energetica per l’alimentazione dei forni dove vengono prodotti magnifici vasi e dove Mirò stesso produceva le sue opere. Dunque quattro residenze, quattro stagioni, quattro impegni importanti, quattro progetti eco-responsabili. Si guarda al futuro non al passato, anche se abbiamo bisogno della nostra storia per costruire il nostro futuro.
Quattro residenze, quattro stagioni, quattro impegni importanti, quattro progetti eco-responsabili. Si guarda al futuro non al passato, anche se abbiamo bisogno della nostra storia per costruire il futuro
Cosa significa per Fondation Valmont sostenere artisti e più in generale l’arte oggi?
Il ruolo della Fondazione è di mostrare, di coinvolgere tutte le persone che sono interessate ai nostri progetti verso il futuro. Cerchiamo artisti qui a Venezia, città universale e attrattiva delle arti per eccellenza. Luogo magico che si è sempre dimostrato capace di reinventarsi e che continuerà a reinventarsi. Noi desideriamo e dobbiamo attirare qui l’arte seguendo questa traccia identitaria in perpetuo movimento, reinventandoci quotidianamente quindi. È il modo migliore, riteniamo, per dare un nostro concreto e creativo contributo a questa grande e unica città. È questo quello che dobbiamo fare tutti assieme per alimentare la speranza di cambiamento per Venezia.
In che relazione si pone Fondation Valmont rispetto alla parte produttiva del marchio Valmont? In che misura l’arte garantisce un fronte creativo alla produzione?
Fondation Valmont non ha la vocazione di accompagnare la parte scientifica, questo lo lasciamo ai chimici. L’arte è sempre stata il nostro motto, il nostro elemento distintivo rispetto ai grandi marchi come per esempio L’Oréal, che hanno sempre usato modelle per commercializzare i loro prodotti. Noi invece abbiamo sempre utilizzato l’arte come supporto promozionale. I nostri design hanno sempre una dimensione artistica, sia essa digitale o fisica. L’arte è in seguito entrata nelle Maisons Valmont e ora con Fondation Valmont abbiamo pensato di darci un’ulteriore missione a partire proprio da Venezia, la quale, se tutte le componenti che ne caratterizzano l’esistenza seguiranno questa strada a dovere, può effettivamente diventare un punto di riferimento universale di città eco-responsabile, contribuendo, per quel che riguarda il nostro specifico, a stimolare e a spingere l’insieme delle équipe di Valmont di tutto il mondo verso l’eco-responsabilità. Presto vorremmo arrivare al punto di poter felici affermare: «Guardate Venezia, una città che ha sempre saputo reinventarsi e che ora si sta volgendo verso il futuro».
Dopo Alice in Doomedland (2021), Hansel & Gretel (2019) e Beauty and the Beast (2017), il quarto capitolo espositivo, Peter Pan. La nécessité du rêve, pone al centro il tema della fuga dalla realtà, offrendo una parentesi onirica, una pausa dall’insostenibilità del reale, restituendo attraverso le opere in mostra il bisogno di evasione e libertà sempre più compresso dall’inquietudine e dalle ossessioni performanti del contemporaneo. Come gli artisti coinvolti hanno restituito in maniera differente questa urgenza?
Le fiabe sono universalmente note come pretesti per parlare di questioni correnti. Io le considero come ponti culturali, basi letterarie con cui vedere, analizzare le cose da nuovi punti di vista. Questo è ciò che facciamo come artisti qui: lavoriamo per rendere più moderne, più contemporanee, queste storie senza tempo. Peter Pan è il racconto di un’evasione, di un sogno, tuttavia come artisti e, di conseguenza, come portavoce di messaggi e contenuti pubblici, non possiamo considerarlo solo in quanto tale; dobbiamo scavare in profondità, indagare sotto la superficie delle immagini e delle parole. La bellezza del nostro lavoro è racchiusa tutta lì.
Il cinema è sempre stato una componente dei suoi progetti. In questo caso, l’immagine in movimento diventa il medium unico della mostra. Quale in particolare le potenzialità di questo linguaggio e quali le difficoltà che ha riscontrato confrontandosi con esso?
L’immagine in movimento è stata la conditio sine qua non da seguire per completare questo ultimo progetto dedicato a Peter Pan. È fondamentale offrire diversi percorsi a chi visita Fondation Valmont, in modo che si possa vivere un’esperienza con (quasi) tutti i sensi attivi attraversando i più compositi linguaggi dell’arte. Gli artisti che hanno partecipato negli ultimi quattro anni ai diversi capitoli espositivi hanno dimostrato di essere capaci di creare concetti molto personali e originali. Silvano Rubino, per esempio, ha portato nelle diverse mostre da labirinti in scala 1:1 a immagini fotografiche digitali, alla videoarte; Isao ha spaziato dall’arte in ceramica all’enorme installazione di Alice, fino ai giochi d’ombre proiettati su un libro aperto. Per quanto riguarda me, reinventarsi è sempre stato parte del mio processo creativo: Sheherazade faceva lo stesso col suo re…
Quali sono gli insegnamenti e i riscontri che l’esperienza e il confronto con altri artisti offrono al suo personalissimo percorso artistico?
Ognuno di noi (artisti) ha il proprio modo di creare, è questa la nostra forza. Il laboratorio-mostra attuato nelle residenze è uno spazio libero e sicuro dove esprimere le nostre emozioni senza paura del giudizio altrui. Il tutto completato da un tocco di sana competizione, così che ognuno sia spinto a dare il suo meglio.
L’opera Blessing in disguise l’ha vista collaborare con sua figlia Valentine. Come è nata questa idea, ma soprattutto come si è sviluppata?
Nel 2021, Valentine era in Valmont per un tirocinio e ne ho approfittato per vedere se la sua creatività potesse essere lì sviluppata. Le ho mostrato la tavola di stile e le ho spiegato come lavorarci. Il risultato è stato molto buono, non solo a detta mia. Amici e collaboratori mi dicevano: «Hai visto cos’è riuscita a fare? È bellissimo!». In Blessing in disguise ha scelto Valentine il ritmo, i fotogrammi e in generale il dinamismo dell’installazione. Ho partorito un’idea che ho subito condiviso con lei e Valentine l’ha realizzata. Credo che sia stata capace di creare un film così bello perché non si è sentita limitata in alcun modo. Le era stato dato il leitmotiv da seguire, ma a parte quello poteva scegliere le immagini che meglio preferiva. Il risultato restituisce in maniera eloquente l’approccio progettuale che ha espresso affrontando questo lavoro: visione complessiva dell’opera e capacità di coniugare perfettamente le immagini con il suono, creando un equilibrio perfetto. Ne sono totalmente soddisfatto.
Una curiosità: perché ha scelto il gorilla come “firma” per le sue opere?
Perché a partire dagli anni ‘90 la popolazione dei gorilla alla frontiera tra Uganda e Repubblica del Congo è tornata a crescere di numero. Perché le comunità hanno capito che non bisognava uccidere i gorilla, era stupido; bisognava invece proteggerli e mostrarli a un turismo che si interessa alla loro vita e grazie a ciò tutta la comunità ne ha tratto beneficio. Per cui il gorilla è per me uno straordinario simbolo di resilienza e comunità.