Il gioco degli specchi

Nikos Aliagas, un fotografo autodidatta a Palazzo Vendramin Grimani
di Mariachiara Marzari
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La Fondazione dell’Albero d’Oro porta in mostra immagini degli abitanti di Venezia, per raccontare le storie di chi vive in città e fa vivere ancora i luoghi che la rappresentano nel mondo.

Giornalista e conduttore televisivo e radiofonico di fama internazionale, Nikos Aliagas (Parigi, 1969), francese di origini greche, è anche un fotografo autodidatta, il cui sguardo rivela una visione del mondo piena di umanità, che mette in risalto attraverso i contrasti del bianco e nero. Empatico con i soggetti che fotografa, vicino alle sensibilità artistiche di Salgado, Koudelka o Artikos, Nikos Aliagas cerca di catturare l’essenza delle persone, il mistero della loro esistenza. Il suo “pellegrinaggio di osservazione” lo ha portato a immortalare una Venezia piena di umanità, di segreti e di eco lontane. Nikos Aliagas ha percorso le calli veneziane per incontrare quelli che in città non si vedono: gli abitanti, ossia coloro i quali evitano gli sguardi degli obiettivi dei turisti. Il progetto Regards Vénitiens, ora divenuto mostra, è germogliato e cresciuto nell’anima dell’artista quando su invito della Fondazione dell’Albero d’Oro, nella formula della residenza avvenuta da luglio a dicembre 2022, ha visitato per la prima volta la Laguna e ne ha potuto osservare la realtà misteriosa e affascinante. In quel momento è nata l’idea di guardare veramente all’interno di Venezia, esplorando il mondo che ruota intorno a Palazzo Vendramin Grimani, immergendosi nella quotidianità straordinaria di Campo San Polo per raccontare le storie di chi vive e fa vivere questi luoghi. Il risultato del suo lavoro costituisce ora il corpus di opere originali realizzate appositamente per la mostra Nikos Aliagas. Regards Vénitiens, allestita negli oltre 400 mq del piano terra e della corte di Palazzo Vendramin Grimani dal 4 febbraio al 26 novembre.

Quando è arrivato per la prima volta a Venezia quali sono state le sue impressioni e quali sono state le basi per lo sviluppo del suo progetto Regards Vénitiens?
Quando si parla di Venezia è sempre difficile riferirsi a una prima volta, in quanto è una città che ospita talmente tanti turisti, decine di milioni ogni anno. Per cui dire “arrivare per la prima volta” significa arrivare quasi in sordina, in un posto che è comunque più forte di te, più grande di te. Un luogo che è stato visto, fotografato, disegnato e che ha ispirato l’intero pianeta attraverso i secoli. Ci arrivi, quindi, con molta modestia. E ovviamente era impossibile durante questa mia permanenza e i viaggi di andata e ritorno che ho fatto dire che sarei venuto a fare una mostra su tutta Venezia: a Venezia devi scegliere. Altrimenti sei perso. Anche se quello che è stato interessante la prima volta è stato proprio riuscire a perdermi tra le calli della città, per poi ritrovarmi in qualche modo o per trovare, forse, ciò che mi dava una strana sensazione nell’essere osservato. Mi sentivo come se fosse Venezia che mi guardava. Il punto di partenza è stato il sestiere di San Polo, dove peraltro si erano insediati i primi abitanti della città, perché era una zona non direttamente esposta alle inondazioni del mare. San Polo è un sestiere piccolo ma anche uno dei più antichi. E questo microcosmo mi ha davvero commosso. È stato proprio partendo da lì che ho visto i veri abitanti di Venezia, quelli che mi interessavano, ossia il barista, la signora della pasticceria, il calzolaio, lo sguardo di un uomo che fuma tranquillamente sul balcone e che guarda il mondo che passa sotto i suoi occhi. Ho trovato questo rimanere fermi ad osservare fiumi di individui provenienti da ogni dove che si incrociano sotto casa davvero una disposizione molto interessante, perché restituisce visivamente l’idea che in fin dei conti si può essere veneziani e aver visto il mondo anche senza aver mai viaggiato. Ed è proprio questo sguardo che volevo fotografare. Quello sguardo che sa, che ricorda e allo stesso tempo non giudica. Osserva. Osserva il mondo che si muove e in questa città dove tutto è movimento – con milioni di persone che camminano incessantemente su e giù per i ponti – è proprio nell’immobilità che meglio se ne coglie il significato. O per meglio dire in una falsa immobilità.

C’è una frase che amo molto sentir dire: «Ho deciso di cambiare la mia vita, vado a Venezia. Mollo tutto e vado a vivere a Venezia». Come se Venezia ti desse il diritto di rinascere

Lei ha saputo entrare molto rapidamente nel cuore della città, cogliendone gli aspetti più intimi. Quali sono i risultati raggiunti dal suo reportage visivo? Come vede il futuro di Venezia?
Un fotografo non sa mai veramente se ha ottenuto il risultato che si era prefisso. Posso prendere un appuntamento per fare delle foto, ma quello che mi interessa è quello che non so. Visitare un laboratorio di maschere per poi rendersi conto che in un angolo c’è qualcosa che dice più del luogo dell’atelier stesso; oppure passeggiare per le calli e trovare giovani, italiani e veneziani, che fanno stampe su carta come facevano i loro nonni o bisnonni più di 100 anni fa. È una città che ti può sorprendere in qualsiasi momento, insomma. È una città di dettagli e insieme di micro-dettagli, ma allo stesso tempo una città di orizzonti. L’impressione di movimento continuo creato dall’acqua può produrre talvolta delle percezioni stranianti, ma allo stesso tempo crea un equilibrio. Si ha come l’impressione che Venezia viva sospesa in equilibrio tra passato, presente e futuro con un punto interrogativo. Non ho una conoscenza abbastanza approfondita di tutta la problematica legata al futuro di Venezia per poterne parlare con sufficiente cognizione di causa; una cosa però mi è chiara: fin dalla sua creazione tutti si sono posti il problema della sua sopravvivenza. Coloro che si sono posti questa domanda e che ancora oggi se la pongono hanno la risposta davanti ai loro occhi. Venezia è ancora qui. Venezia è nello stesso tempo un’idea e una grande opera architettonica. È qualcosa al contempo di visibile e di invisibile. Ed è proprio la sensazione che ho provato io stesso venendo in questa città. Come se nelle acque di Venezia potessi ribattezzarti e iniziare una nuova vita.

Venezia, una delle città più fotografate e rappresentate al mondo. Può ancora davvero riservare qualche sorpresa?
Dipende. Non è mai lo stesso cielo. Puoi fotografare il Ponte di Rialto un milione di volte, non sarà mai lo stesso ponte. La luce qui è fantastica. Si possono visitare chiese come Santa Maria Gloriosa dei Frari, la Scuola Grande di San Rocco, o ancora i palazzi… Ci vogliono diverse vite per comprendere Venezia. Anche se “comprendere” non è probabilmente il termine giusto da usare qui, perché è un verbo che include l’idea di “prendere”. Non sono venuto a Venezia per prendere qualcosa. Sono venuto per lasciarvi possibilmente qualcosa, vale a dire il mio sguardo. E quando me ne sono andato, ho custodito dentro di me i silenzi, i chiaroscuri, le luci. Come qualcosa di prezioso e fragile. Direi quindi che è una città che può riservare delle sorprese a patto che non si arrivi qui pieni di certezze.

Ha scelto di restituire il suo racconto visivo esclusivamente in bianco e nero. Quali sono i motivi di questa scelta?
Fotografo in bianco e nero perché ritengo sia la scelta migliore per catturare solo l’essenziale, che a mio avviso si riassume nella curva, nel contrasto e nell’inquadratura. Forse mi sbaglio, ma le mie prime emozioni fotografiche mi piace ricordare che siano state in bianco e nero: erano le fotografie dei miei antenati che ho scoperto quand’ero giovane, in una scatola di scarpe di mia nonna, in Grecia. Ho passato il resto della mia vita fino a oggi, 54 anni, alla ricerca di quella prima emozione, di quei volti senza tempo quasi fissati in una teatralità, in qualcosa di iscritto e inciso sul marmo del tempo. La gente allora non sorrideva nelle foto, perché consideravano la fotografia un atto serio, una firma e non un hobby. Forse è proprio questo che sto ancora cercando attraverso l’utilizzo del bianco e nero: un’atemporalità e allo stesso tempo una firma. Una firma contro l’equivoco del colore. È più intrigante fotografare un bel tramonto di un vecchio che fuma in una calle di Venezia, un vecchio che non si è messo in posa per essere fotografato e che ha molto più da dire di una cartolina.

Quali nuove suggestioni ha offerto al suo percorso artistico questa residenza alla Fondazione dell’Albero d’Oro?
La residenza è un’opera d’arte. Il Palazzo è un’opera d’arte. Quando arrivi con le tue foto e il tuo sguardo sulla città e molto modestamente devi raccontare le tue sensazioni di Venezia e allo stesso tempo sposare l’atmosfera di Palazzo Vendramin Grimani, la cosa all’inizio non risulta così semplice, perché il Palazzo è comunque più forte di te. Palazzo Vendramin Grimani è lì da sei secoli e tu arrivi con le tue fotografie e ti senti inevitabilmente piccolo! Semplicemente non esisti. E per di più gli dici: «guarda che cosa ho visto di te». Devi essere un po’ pazzo per offrire uno specchio a un veneziano. «Guardati allo specchio». Non so se sono riuscito a convincerlo, ma non era questo l’obiettivo; l’obiettivo era di far incontrare i nostri sguardi. E credo che la Fondazione, segnatamente Béatrice de Reyniès e tutto il suo staff, con tutta la fiducia che ha riposto nel mio lavoro mi ha consentito di raccontare, nel mio piccolo, tutto ciò che ho visto e vissuto dentro di me in questo viaggio che rimarrà per sempre un viaggio iniziatico. Possiamo ancora commuoverci, possiamo ancora ritrovarci, perderci in una città che pensiamo di conoscere anche da lontano. Conclusione: bisogna venire a Venezia per ritornare a Venezia.

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